Prefazione a «E tu chi eri?» di Dacia Maraini

Prefazione a Dacia Maraini «E TU CHI ERI? Interviste sull’infanzia a donne e uomini che hanno fatto il Novecento»

BUR, PP.348, €13 La Stampa 12 aprile 2023

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Prefazione Maraini [PDF]

DaciaDue grandi concetti costituiscono le condizioni di possibilità di queste ventisei interviste sull’infanzia condotte da Dacia Maraini tra il 1968 e il 1972 ad alcune tra le principali personalità artistiche e culturali del Novecento: di questi concetti il primo è il carattere, il secondo la coscienza in quanto autocoscienza.

Il termine carattere viene dal verbo greco charasso che significa “incidere, coniare, solcare”, il verbo che designa l'azione dell’aratro che fende la terra e l’azione della zecca che conia le monete: come a dire che ognuno di noi quand’era ancora informe ha ricevuto un solco o un conio che gli si è impresso dentro come una forma originaria destinata in seguito a ospitare tutte le esperienze successive conferendo loro quella specifica caratterizzazione che si manifesta in tutto quello che si fa. “Le style c’est l’homme”, diceva il Conte di Buffon, e diceva bene: “Lo stile è l’uomo” nel senso che ognuno di noi, prima di essere un contenuto, è una forma, un metodo, un modo di essere. Appunto, uno stile. Ma questo nostro stile è un destino inevitabile che procede dalla coniatura originaria o è anche il risultato di un lavoro? …

Ragionando sul carattere in quanto forma da cui procede ogni nostra successiva formazione e radice a partire da cui nascono tutti i nostri frutti, ci ritroviamo al cospetto di uno dei più profondi misteri dell’esistenza. Dacia Maraini chiede ai suoi interlocutori: “E tu chi eri?”. Leggendo le sue domande e le loro risposte, ognuno di noi, oltre a risentire le loro voci sperimentando come “i morti ci tengono compagnia nel nostro misterioso giocare col passato”, è invitato a chiedersi a sua volta: “E io, chi ero?”. E ancora: “Come sono diventato quello che sono adesso?”. 

Il motivo del perché siamo questo preciso essere umano e non un altro, e del perché essendo quello che siamo risultiamo così diversi da tutti gli altri, compresi i più stretti familiari e persino i genitori, è una di quelle questioni destinate a non trovare mai una risposta definitiva. Analogie e marcate somiglianze si riscontrano di frequente, ma il dato fondamentale rimane l’unicità, la quale anzi diviene ancora più intensa proprio alla luce delle analogie riscontrate. Il dato fondamentale è la singolarità di ognuno di noi e la conseguente inevitabile solitudine a cui tale condizione necessariamente consegna. Per quanto infatti la nostra vita risulti composta da una serie di eredità che ci collegano al passato e da una serie di relazioni che ci collegano al presente, l’esperienza originaria è la singolarità della nostra specifica individualità, spesso così difficilmente comunicabile. Tale condizione può essere causa di gioia o di risentimento, qualcosa per cui ringraziare o per cui protestare e talora persino inveire: “Perché sono proprio quello che sono? Perché non sono diverso? Perché non sono come lui, o come lei? Perché ho queste caratteristiche e non altre?”. A prescindere comunque che siano più i doni o i difetti, una lunga catena di dati di fatto si impone su di noi venendo a costituire il nostro essere del tutto indipendentemente dal nostro volere. Siamo al cospetto del mistero della personalità. 

A questo riguardo c’è chi parla di caso e chi invece di grazia o di vocazione. Chi avrà ragione? È meglio essere nati o sarebbe stato meglio non nascere affatto? Se poi consideriamo l’umanità nel suo insieme nessuno sa se siano maggiori i benefici o i malefici della sua esistenza. È un bene che ci sia? O sarebbe stato meglio, nel senso di meno doloroso, il suo non essere? Chiedetelo alle foreste e agli oceani: sorella foresta, fratello oceano, voi cosa ne pensate? Siete felici che esistono gli esseri umani, oppure la vostra esistenza sarebbe stata migliore senza di loro? Chiedetelo agli alberi e agli animali. Chiedetelo però anche ad altri fenomeni come i dipinti, gli strumenti musicali, le cattedrali: sorelle, fratelli, cosa ne pensate? Siete felici che esistano gli esseri umani, oppure la vostra esistenza sarebbe stata migliore senza di loro? Ognuno immagini da sé le più probabili risposte, ma ciò che più conta è rivolgere a se stessi la medesima domanda: io sono felice di essere? E di essere quello che sono?  

Chiederselo è naturale, perché la vita non è giusta. Per lo meno, non lo è per tutti allo stesso modo. C’è chi ha avuto enormi opportunità ad altri del tutto negate, c’è il troppo di alcuni e il troppo poco di altri, c’è chi è nato con la camicia bianca perfettamente stirata e una bottiglia di champagne nella mano e chi trascorre l’intera esistenza senza neppure un brindisi, solo una sequenza di tristissime sbornie. Questa imponderabilità strutturale si esplicita nel mistero della maturazione individuale, del perché uno sia diventato proprio quello che è. Destino? È questa la parola giusta per descrivere la causa, la radice, la sorgente di ciò che siamo? Oppure la parola giusta è libertà? Nella canzone intitolata Piazza grande Lucio Dalla cantava “quello che sono l'ho voluto io”. È così per tutti? Quello che siamo l'abbiamo veramente voluto noi? Oppure avremmo voluto essere altri, diversi, se non del tutto, almeno un po’ diversi, ed è stato qualcosa più forte di noi a farci essere esattamente quello che siamo? Avendone la possibilità, cambieremmo qualcosa del nostro corpo, carattere, intelligenza, indole complessiva, o siamo perfettamente soddisfatti di ciò che siamo perché l’abbiamo voluto noi? 

Come spesso nella vita, forse la verità sta nel mezzo: esiste sia una forza maggiore detta destino, sia una reale capacità di decisione e assunzione di responsabilità detta libertà. Ma quale tra le due dimensioni è più forte? Ripenso alle parole con cui si chiude La lunga vita di Marianna Ucrìa: “Marianna ferma lo sguardo sulle acque giallognole, gorgoglianti e interroga i suoi silenzi. Ma la risposta che ne riceve è ancora una domanda”. 

Pindaro si rivolgeva ai suoi uditori esortandoli così: “Diventa ciò che sei”. È una frase bellissima, ripresa da Nietzsche in Ecce homo il cui sottotitolo è: Come si diventa ciò che si è. Ma all’affermazione-esortazione di Pindaro si può obiettare: il nostro essere, a ben vedere, non è in realtà un diventare? Ciò che siamo non consiste forse in una progressiva evoluzione e in una altrettanto progressiva e dolorosa involuzione? Sembra quindi sbagliato presupporre che esista un essere già definito che noi dobbiamo diventare, e che sia invece più corretto dire che noi siamo ciò che diventiamo, cioè che il nostro essere dipende dal nostro diventare. In questa prospettiva l’esortazione di Pindaro dovrebbe suonare così: “Sii ciò che diventi”. Ovvero: assumi la tua evoluzione-involuzione come base fondamentale del tuo essere senza cercare di essere altro, senza tendere a nulla di diverso dal tuo flusso e dal tuo fluire. 

Mi viene in mente questo pensiero di Marco Aurelio: “Tutto si trasforma, e anche tu sei in continua trasformazione e, in un certo senso, in continua dissoluzione. E così pure l’universo intero”. Da qui il consiglio dell’imperatore filosofo sul modo di affrontare la morte: “Termina la tua vita con serenità, come l’oliva che, una volta matura, cade al suolo benedicendo la terra che l’ha prodotta, ringraziando l’albero che l’ha generata”. Sul medesimo argomento c’è questa sua altra considerazione: “Percorro le tappe fissate dalla natura fino al giorno in cui cadrò e avrò pace, esalando l'ultimo respiro in quest'aria da cui ogni giorno la traggo, cadendo su questa terra da cui mio padre trasse il suo seme vitale, mia madre il suo sangue, la mia nutrice il suo latte; e da cui anch'io ricavo da tanti anni, giorno dopo giorno, alimento e bevanda; questa terra che sopporta il mio passo e gli infiniti usi che ne faccio”. Sii ciò che diventi. Non voler essere altro rispetto al tuo diventare.  E così, ragionando sull’inizio della vita grazie alle intense interviste di questo libro, siamo giunti a intravederne anche la fine. 

Ciononostante, l’esortazione di Pindaro continua a conservare ai miei occhi una parte non trascurabile di ragione. Si può infatti altrettanto fondatamente sostenere che un progetto già scritto dentro di noi esista, che esista cioè una natura tutta nostra, un qualcosa già misteriosamente in nuce dentro di noi che aspetta di fiorire venendo alla luce e maturando al sole della consapevolezza. E quando questo seme interiore matura, si sperimenta un senso di letizia e di quiete, analogo a quel sentimento di pienezza che si prova quando si sente di essere al posto giusto con la persona giusta. Avrebbe potuto Marco Aurelio non filosofare? Avrebbero potuto i ventisei intervistati in questo libro non essere quello che sono stati? Gadda e Ginzburg non scrivere, Montale e Pasolini non poetare, Rossellini e Bertolucci non girare film, De Chirico e Guttuso non dipingere, Abbado non dirigere, Callas non cantare? Avrebbe potuto Maraini non dedicare la vita alla letteratura? 

Se la risposta che sorge spontanea è no, cioè che nessuno di loro avrebbe potuto non essere quello che è stato e non obbedire all’ispirazione della sua musa, allora questo significa che veramente qualcosa in potenza è già inscritto dentro di noi. In questa prospettiva la vita diventa una faccenda sensata, si trasforma in un lavoro dotato di finalità in quanto ricerca della nostra essenza più profonda. E si risentono le parole di Pindaro: “Diventa ciò che sei”.

Chi ha la fortuna di interpretare così la sua esistenza avverte una vocazione, sente una chiamata, sa di avere una missione. Vasilij Grossman descrive tale condizione interiore come “un sentimento semplice e forte insieme”, precisando che si tratta della “consapevolezza di avere un unico scopo nella vita”.  È semplicemente un dato di fatto: alcuni esseri umani percepiscono che esiste per loro qualcosa di unificante all’interno della moltitudine anonima di opere e giorni, che c’è una specie di luce o di voce dentro di loro che agisce come un misterioso richiamo. È quanto gli artisti, i poeti e i musicisti chiamano ispirazione. 

Ma se questo qualcosa esiste davvero, da dove viene? Tra le diverse possibilità di risposta penso che le principali siano queste tre: 1) viene dall'alto: dal Dio unico, o da uno degli Dei, o da una delle Muse, in ogni caso dalla sfera della trascendenza; 2) viene da qualcuno della cui vita precedente noi siamo la reincarnazione, si tratti di uno solo o di più sconosciuti antenati; 3) si origina nei primi momenti della nostra vita. 

La terza ipotesi è sostenuta dalla cosiddetta “teoria dei mille giorni” secondo la quale il carattere che noi adesso abbiamo e che determina la nostra forma e le nostre formazioni è venuto a crearsi in modo pressoché definitivo e irriformabile nei primi mille giorni della nostra vita, considerando tra di essi anche i giorni della gravidanza nel grembo materno. Nel caso in cui la nostra più intima personalità provenga dalla trascendenza o da una o più vite precedenti si usa parlare di anima; nel caso in cui invece si sia formata sulla base delle prime fondamentali esperienze avute nei giorni iniziali del nostro essere al mondo si usa parlare di psiche. Non è detto però che le tre visioni debbano essere necessariamente in alternativa tra loro, perché potrebbe benissimo darsi che nella sua origine l'anima spirituale sia scaturita da un Dio, poi sia stata ospitata da altri viventi per una o più esistenze precedenti, e infine abbia iniziato a vivere dentro di noi sperimentando la pressione della vita in modo particolare nei primi mille giorni della nuova esistenza. Per questo, al cospetto dell'interiorità di un essere umano, e della sua infanzia in particolare, è pressoché doveroso parlare di mistero.

Il secondo concetto fondamentale in gioco in queste interviste è la coscienza in quanto autocoscienza, ovvero il fatto che l’essere umano può tornare a vedere quello che era e quindi pensarsi e ripensarsi, o meravigliandosi e ringraziando per quello che è, oppure al contrario indignandosi e addolorandosi con se stesso e con la vita. In entrambi i casi il dato decisivo è la consapevolezza, questa nostra stupefacente possibilità di salire nel punto più alto della mente e guardare se stessi dall'alto. Da lassù ci possiamo vedere per quello che siamo veramente, soppesare che cosa siamo diventati, che cosa abbiamo perso e che cosa guadagnato lungo il tragitto, e se lungo la via siamo stati condotti da altri o abbiamo scelto in prima persona di procedere, e quando in un caso e quando nell’altro. 

La luce della mente giunge a rivedere alcuni eventi del passato e rivedendoli li illumina. La conoscenza infatti è sempre luce, lo è a maggior ragione quando è conoscenza di sé, e riconoscendo il passato mette in grado di riviverlo, a volte patendo lo stesso dolore, a volte provando la medesima gioia. Per questo la conoscenza in quanto autoconoscenza può giungere a guarire, perché quel malessere oscuro che si agitava dentro di noi, quando viene conosciuto grazie alla luce della mente, non è più malessere, diviene solo essere, e così perde il suo veleno. 

Il valore terapeutico della conoscenza di sé costituisce un’esperienza che gli esseri umani hanno compiuto fin dagli inizi della civiltà, come dimostra la scritta che campeggiava sull'architrave del tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso” (nell’originale greco “Gnothi seauton”). E naturalmente una forma imprescindibile di questa conoscenza di sé potenzialmente terapeutica è la conoscenza della propria infanzia. Da questo punto di vista le domande di Dacia Maraini e le risposte delle grandi personalità presenti in questo libro possono essere paragonate o a confessioni o a sedute psicanalitiche, perché in entrambi i casi si torna su di sé e si giunge a conoscere meglio se stessi e la vita. Queste pagine contengono infine anche una forte dimensione sociale e politica, e nel loro insieme costituiscono una specie di romanzo di formazione della coscienza del Novecento, un Bildungsroman collettivo che ancora oggi può illuminare la nostra società. 

Vito Mancuso