VITO MANCUSO – DESTINAZIONE SPERANZA
in libreria per Garzanti editore il 15 ottobre 2024
In un presente dominato da terribili conflitti, disastri ambientali e inquietudini diffuse, guardare al futuro con ottimismo sembra un’impresa sempre più ardua: ripiegandosi su se stesso, l’uomo sta a poco a poco perdendo la speranza in un domani migliore. Viene dunque da chiedersi: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?». Cercando di rispondere a queste tre fondamentali domande, formulate per la prima volta dal filosofo Immanuel Kant, Vito Mancuso ci guida alla ricerca del significato più profondo e autentico della nostra vita. Togliendo alla ragione ogni pretesa di possedere un sapere su Dio e sull’avvenire, Destinazione Speranza rifonda il senso della nostra esistenza su un presupposto inedito e dirompente: la libertà di obbedire. Se saremo in grado di essere noi stessi in relazione con gli altri, di resistere all’egoismo favorendo la solidarietà, di ridare valore alla dimensione morale al fine di agire con responsabilità, allora non tutto sarà perduto: solo così, infatti, potremo definirci donne e uomini davvero liberi e guardare con speranza, ragionevole e fondata, al futuro che ci attende.
ISBN: 8811010624 – Casa Editrice: Garzanti – Pagine: 288 – Data di uscita: 15-10-2024 – Edizione cartacea 18,00€
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IL METODO KANT
Il libro del filosofo teologo dedicato alle domande di Kant sul significato profondo dell’esistenza umana. Solo la cultura ci aiuta ad arricchire la nostra interiorità.
Per ognuno di noi la vita ha una direzione orizzontale e una direzione verticale. La direzione orizzontale riguarda la natura e la storia dentro le quali ci ritroviamo inseriti e che ci trasportano in avanti come un interminabile tapis roulant. La direzione verticale riguarda noi stessi nella nostra singolarità, dal giorno in cui siamo nati fino al giorno in cui moriremo scomparendo dal tapis roulant della natura e della storia che in nostra assenza continuerà a scorrere imperterrito esattamente come aveva fatto prima del nostro arrivo.
Le domande, a questo punto, sono due. La prima: che senso ha il continuo scorrere in avanti dell’interminabile tapis roulant della natura e della storia? C’è un fine che lo guida, uno scopo, una tensione verso una meta, o è solo un meccanismo insensato, un gioco beffardo con qualche risata e qualche guizzo di intelligenza, ma il cui unico vero risultato complessivo è solo un mare di lacrime e di sangue? …
La seconda: io, che vi sono comparso senza chiedere nulla, chi sono veramente? Da dove vengo, dove vado? Vengo dal nulla e ritorno nel nulla, oppure vengo dall’essere e ritorno all’essere? E in che modo vi ritorno, se vi ritorno? E nel frattempo, cosa ci faccio qui? Come mi devo comportare? Qual è la maniera migliore per raggiungere quella felicità che tutti inseguono e ben pochi raggiungono?
La prima domanda riguarda la natura e la storia, la seconda il senso e lo stile di una singola esistenza. Si tratta di domande a cui l’intelletto non può rispondere, vi può rispondere solo la ragione (secondo la decisiva distinzione kantiana tra intelletto e ragione su cui mi soffermerò più avanti). Il che significa che tali domande non possono essere oggetto della scienza, ma solo della filosofia. In questo libro vi risponderò attraverso il metodo Kant.
Tale metodo consiste nel primato della dimensione morale. Si tratta di un primato che non va inteso semplicemente nel senso ovvio secondo cui è giusto e doveroso fare il bene, ma che va inteso soprattutto come riguardante anche la dimensione teoretica dell’esistenza, perché alle questioni decisive presentate sopra sul senso dell’essere e sul nostro destino si può rispondere fondatamente solo dal punto di vista morale: saranno risposte teoretiche che scaturiranno dalla pratica morale. È questo il metodo Kant.
Verso la fine della Critica della ragion pura egli riassume così il senso del suo lavoro: «Nessuno potrà certamente menar vanto di sapere che esistono un Dio e una vita futura». Aveva distrutto la metafisica togliendo alla ragione ogni pretesa di possedere un sapere su Dio e sulla vita futura, demolendo così le risposte tradizionali alle due domande capitali sul senso dell’essere e sul nostro destino illustrate sopra (il che lo portò, come vedremo, ad avere qualche problema con il potere politico-ecclesiastico prussiano, nonché a essere oggetto ancora prima degli attacchi di un gesuita bavarese con un’opera in due volumi intitolata senza mezze misure Anti-Kant e a finire post mortem nell’Index librorum prohibitorum della Chiesa cattolica).
Non si era trattato tuttavia per lui di una distruzione della speranza, ma di una sua rifondazione: ora le domande sulla direzione orizzontale e verticale della vita venivano a trovare una risposta non più a partire dalla necessità della natura o dall’autorità di un libro ritenuto sacro, ma a partire dalla libertà in quanto divenuta capace di agire solo in vista del bene. Quando infatti in questo mondo, dove tutto si muove secondo necessità e dove tutti agiscono secondo istinto o secondo calcolo, la natura umana (di cui Kant, come vedremo, mise in rilievo il male radicale), si mostra ciononostante capace del bene più puro, si ha, allora, un fenomeno inatteso, inconcepibile, eppure reale, che apre alla ragione l’unica via possibile per rispondere positivamente alle due domande decisive. Fu seguendo questa via che Kant trovò il fondamento per la rifondazione della speranza. Scrisse nella sua pagina più bella: «La legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile».
Parlare di una vita che è indipendente dalla animalità e dal mondo sensibile significa parlare di un’altra vita, di una vita altra, del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo, la quale è vita animale e sensibile: significa cioè parlare della trascendenza, della realtà che è in gioco quando si nomina Dio e la vita futura. Ed è in questa prospettiva che Kant afferma di trovare risposta alle domande decisive, dichiarandosi moralmente certo dell’esistenza di Dio e della vita futura: «Io avrò fede nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei princìpi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi». Poco dopo: «La fede in un Dio e in un altro mondo è a tal punto intrecciata col mio sentimento morale, che non corro un pericolo maggiore di perdere quella di quanto non lo corra di perdere questo». Il che significa: o il fenomeno morale è falso, è cioè solo interesse mascherato, oppure, se è vero, apre un’altra via e, forse, un’altra vita. E che sia vero o falso, non dipende da altro che da te.
Alle domande decisive della tua esistenza non rispondono la conoscenza e la scienza che ne è il coronamento; risponde il pensiero che scaturisce dalla tua vita morale, ovvero dalla tua libertà che si compie come responsabilità. È il metodo Kant.
Alle due domande decisive la cultura oggi dominante risponde così: a) non esiste nessun senso ulteriore della natura e della storia, esse non sono finalizzate a null’altro se non a se stesse e quindi il loro senso è unicamente quello di alimentare il movimento del tapis roulant, tanto insensato quanto perennemente affamato di carburante organico; b) la singola vita umana non è altro che una minuscola manifestazione dell’insensata logica complessiva, di conseguenza per essa non esiste altro senso se non quello che le deriva dalla dissennata voracità dell’interminabile tapis roulant, cioè essere a sua volta dissennata e vorace. Per la cultura dominante infatti la vita di ognuno di noi ha una sola direzione: quella orizzontale. Inoltre, c) per la cultura dominante la morale è solo una convenzione per le masse finalizzata a non farsi troppo male a vicenda, ma non ha nulla a che fare con la logica della vita, la quale, esattamente al contrario, compie la sua vera natura nell’infrangerla.
Ora voi collegate: a) la filosofia della natura e della storia della prima risposta, b) la filosofia dell’esistenza della seconda, c) la riduzione della morale a pedante convenzione, e avrete la cultura dominante ai nostri giorni. Essa è l’espressione popolare, quindi necessariamente grossolana ma filologicamente fedele, della filosofia di Friedrich Nietzsche: materialismo + volontà di potenza. Tradotto in concreto: corpo + desiderio senza freni. La definizione che oltre un secolo fa egli diede del cristianesimo, cioè «platonismo per il popolo», vale oggi rispetto a lui per l’essenza della cultura dominante: «nietzschianismo (pronuncia: niccianismo) per il popolo».
Tale filosofia vincente ai nostri giorni emerge dal cinema, dall’arte, dalla musica, dalla letteratura, dalla moda, da tutto ciò che con una parola sola si chiama cultura perché coltiva l’interiorità umana (cultura, coltura, coltivazione hanno la medesima etimologia, la stessa anche per culto) e si riverbera sul modo di agire, di parlare, di vestire e in genere di disporre la mente. La disposizione della mente contemporanea è la volontà di potenza, ovvero l’assenza di ogni senso oggettivo di fronte a cui fermarsi, capire e obbedire. No, non esiste un senso oggettivo della natura, esiste solo il caso; non esiste un senso oggettivo della storia, esiste solo la forza; non esiste un canone etico, esistono solo convenienze e convenzioni; non esiste un canone estetico, esiste solo una sfilata di gusti e piaceri individuali. La distruzione di un senso oggettivo su cui normarsi e a cui obbedire è la condizione per l’esercizio della volontà di potenza, che, a livello di massa, si traduce in puro arbitrio, soggettivismo sfrenato, porci comodi. Il luogo in cui supremamente tutto questo trova la sua più plateale manifestazione è il corpo.
Qui non c’è più nessuna oggettività da riconoscere, c’è solo una situazione di partenza da interpretare come meglio aggrada e conviene a ciascuno a seconda delle stagioni e delle circostanze. In discussione ovviamente non c’è il fatto che uno nasca con un orientamento sessuale diverso da quello dei più e si dichiari tale e tale per- manga, felice, realizzato e rispettato per tutta la vita, com’è giusto in conformità a madre natura che così l’ha generato e come insegna l’etica del rispetto della dignità di ogni essere umano che tutti sono chiamati a onorare, a partire dal proprio linguaggio. In discussione c’è il fatto che si tende a che nessuno dichiari più nulla perché non c’è nulla da dichiarare se non la voglia e il capriccio del momento, i quali impongono se stessi trasformando la psiche e il corpo, e di conseguenza la personalità complessiva, in un desiderio ondivago e proteiforme senza nessuna stabile identità. Come denominare questa cultura trionfante?
La cultura è disposizione della mente: è il modo e la forma con cui la mente si dispone a guardare e a interpretare la vita, e poi a viverla di conseguenza. La cultura è lo schema mentale che una persona necessariamente applica ogni volta che guarda, conversa, giudica, agisce: tutto ciò che una persona pensa e fa, e anche ciò che non pensa e non fa, dipende dalla sua cultura in quanto coltivazione della sua interiorità. Da questa coltivazione interiore dipende la qualità del terreno e delle colture prodotte, esattamente in linea con il detto evangelico: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo». Tutto in ogni essere umano dipende dalla coltivazione interiore o cultura, la quale non è un lusso dei dotti ma una necessità di tutti. È un po’ come i muscoli: non puoi scegliere di usarli o no, se vivi li devi usare per forza, puoi solo scegliere di allenarli o trascurarli. Lo stesso per la cultura: non puoi scegliere di averla o no, perché in ogni tua azione essa entra in gioco e manifesta chi sei, puoi solo determinare il suo livello; e, di conseguenza, il tuo.