Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia

GARZANTI editore 2013

Un confronto intenso a volte anche crudo, tra il filosofo ateo e il teologo credente, due posizioni che si scontrano con schiettezza ed onestà in un dialogo in cui nessuno dei due lesina l’attacco cosicché le posizioni emergono in modo chiaro. La mancanza della vittoria finale non è carenza, ma affermazione dell’antinomia che emerge ogni volta che si affrontano le questioni ultime della vita. L’argomentare supera il tema specifico, l’origine della vita e Dio, delicato territorio da dove si possono lanciare sguardi su quell'”invisibile” che si intuisce solamente, dinanzi al quale le due posizioni contrastanti hanno pari dignità. Senza esclusione di colpi i due allargano l’analisi ai grandi temi del loro pensiero espondendone le ragioni. Elemento e cifra unificante è il dialogo inteso da una parte come scontro regolato e dall’altra come livello interiore della coscienza che si apre verso l’altro. Il libro riproduce la disputa avvenuta nell'ambito del giornale diretto da Flores D'Arcais (“Micromega” 3/2012), ed è racchiusa tra due introduzioni e due postscriptum conclusivi. La prosa conserva l’immediatezza del dibattito tanto che il lettore, coinvolto emotivamente ne è preso fino al termine, per poi sentire il bisogno di tornare e fermarsi sui punti che stimolano il pensiero.


«L'ateismo, almeno il mio, non è una fede ma una constatazione. Io mi fermo al nostro comune sapere, senza aggiungere né togliere nulla Paolo Flores D'Arcais

«Credere è una particolare declinazione del pensare. Io ne parlerei come di un pensare con il cuore, di un pensare al senso globale dell'esistenza parteggiando per il bene e la giustizia.» Vito Mancuso

(quarta di copertina)


I due autori espongono la loro posizione circa il significato del 'dialogo', tema chiave del saggio :

VITO MANCUSO

Dialogare, nel senso forte del termine, non è semplicemente parlare con, è qualcosa di più. Come suggerisce l'etimologia greca (diá + lógos), è esporre se stessi alla forza e al rigore del ragionamento. In questo senso l'esercizio del dialogo, molto prima che a livello esteriore con chi la pensa diversamente da noi, inizia a livello interiore, nell'intimo della coscienza personale. Oggi il dialogo è diventato ancora più urgente, perché quella figura di credente che prima si poteva supporre unitaria, ora è a sua volta sempre più soggetta a diversi influssi, così che il credente cattolico sente di avere dentro di sé anche un credente protestante, un credente ortodosso, un credente ebreo, un credente buddhista, e via di questo passo. Qual' è la condizione essenziale per poter istituire un dialogo? Rispondo con un aneddoto ricordato dall'autista di Martini, Sandro Clerici, che riguarda un fatto del 1982: «Faceva caldissimo a Porlezza sul lago di Como. Il parroco sembrava molto preoccupato, a riva si notavano alcuni bagnanti in costume, le donne erano in bikini. Temeva che quella vista potesse offendere Martini. Ma lui, in abito talare, rispose così: "Forse hanno un vestito più adeguato loro"». Qual è, quindi, la condizione essenziale del dialogo? È la capacità di porsi dal punto di vista dell'altro. La risposta di Martini in abito talare in quell'afosa giornata di luglio è solo una battuta, ma segnala la capacità di capire davvero la posizione degli altri, siano essi donne in bikini oppure esseri umani dietro le sbarre di un carcere, o chi non ce la fa più a continuare a vivere attaccato a una macchina, o chi esce da un matrimonio fallimentare e si è ricostruito la vita con una nuova relazione, o chi si scopre abitato da un istinto sessuale verso persone dello stesso sesso, o chi nella storia e nella natura non rinviene alcun senso ma solo l'assurdo… insomma tutti coloro che vedono e sperimentano il mondo in modo diverso dal nostro. Martini sapeva interrogarsi sull'abito del suo corpo e anche, e soprattutto, sull'abito della sua mente, quando si trovava al cospetto di abiti mentali diversi dal suo. E per questo ha praticato, e ha insegnato a praticare, il dialogo.

PAOLO FLORES D'ARCAIS

La filosofia è dialogo, ininterrotto. Per Socrate era addirittura l'unico modo di pensare adeguato al cittadino libero. Dialogo non certo come diplomazia, accezione che avvilisce, ma anzi come scontro e conflitto. Regolato però dal comune accordo sul discorso razionale come unica «arma» a disposizione. Homo Sapiens preferisce ancor oggi, statisticamente parlando, il pensiero che rassicura, aspira alla conferma di ciò che già crede, e vuole assaporare il dubbio solo come innocuo e piacevole diversivo. Mentre un dia-logos vero, argomento vs argomento, de-stabilizza, s-conforta, s-consola. La nostra specie è – evolutivamente e dunque biologicamente – nata per credere. Ha bisogno di sentirsi parte di un cosmo animato da un «senso» e orientato verso uno scopo, è la tendenza spontanea del nostro essere neuronale. Le nostre sinapsi sono naturaliter animiste. Ma la stessa materia grigia consente anche il sorgere della filosofia, che dell'animismo e di ogni fede costituisce il potenziale antidoto. Sono il primo a ritenere che nell'esistenza impegnarsi a «dare senso» possa essere più importante del «conoscere», trovo invece altamente immorale, oltre che illogico, il confonderli. Nel cosmo non c'è giustizia. È un nostro bisogno (e neppure di ogni Sapiens). Chi ha avuto solo infelicità non verrà mai risarcito. Questo è l'orrore che troviamo insopportabile, ma che lascia «il tutto del cosmo» perfettamente indifferente, visto che non ha una neo-corteccia capace dei sentimenti. Se vogliamo «giustizia e libertà» dobbiamo agire per esse, anziché attribuirle al cosmo. Se vogliamo lasciare questo insignificante coriandolo di sputo dell'universo un po' meno ingiusto di come lo abbiamo trovato, dedichiamo energie per l'eguaglianza, non raccontiamo «superbe fole». Proviamo a «seguir virtute e cagnoscenza» invece di spacciare leggende cosmiche sulla «virtute» che impregnerebbe teleologicamente «l'intero del mondo». Noi intellettuali non abbiamo il coraggio di dedicare tutte le nostre energie all'azione, a fare il bene, come qualche prete di strada e medico senza frontiere, ma non è un buon motivo per lenire il nostro senso di colpa annunciando la falsa novella che «il principio del mondo sia il bene» e che basti «abbandonarsi all'oggetto infinito». Riconoscere il non-senso dell'universo e agire per creare giustizia sono due facce indisgiungibili perché la speranza non venga sepolta nell'illusione. Proseguiamo il dialogo, perciò: a forza di ragionare finiremo per intenderci.


Video intervista a RaiEdu Filosofia

Recensione di AgoraVox