Confini da superare

Dal valico di Rafah all’Ungheria le frontiere vengono chiuse da barriere che dividono i sommersi dai salvati. Il compito non è abbatterle ma renderle permeabili garantendo la diversità e la protezione. 

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Agli inizi degli anni Settanta John Lennon cantava “Imagine”, e quanto ci invitava a immaginare con la sua splendida canzone era che non vi fossero più paesi (“Imagine there’s no countries”) e che tutti gli esseri umani condividessero l’intero mondo (“Imagine all the people sharing all the world”). L’abbattimento di ogni confine, quindi. Chissà quante altre volte, prima e dopo di lui, la libera immaginazione degli esseri umani ha sognato l’abbattimento delle barriere territoriali auspicando un super trattato di Schengen a livello planetario. Eppure oggi le cose vanno decisamente nella direzione opposta. Ben nove paesi europei, tra cui l’Italia per il confine con la Slovenia, hanno ristabilito la chiusura delle frontiere sospendendo chissà fino a quando la libera circolazione sancita da Schengen, del quale temo sia più realistica la futura abolizione che non la piena applicazione. Altri paesi in questi anni hanno costruito a protezione dei loro confini muri e recinzioni di filo spinato alte diversi metri: oggi nel mondo ne esistono almeno una sessantina, tra cui i muri costruiti da Israele in Cisgiordania, il muro tra Stati Uniti e Messico, le recinzioni di cui Orban ha circondato l’Ungheria. Gli unici continenti che ne sono privi sono, per motivi facilmente comprensibili, l’Oceania e l’Antartide. Ma c’è un confine che in questi giorni è più di ogni altro il simbolo della maledizione e della benedizione rappresentata dalle frontiere, per il destino di vita e di morte di chissà quante migliaia di persone che esso rappresenta: il valico di Rafah …

Da un lato la Striscia di Gaza, dall’altro l’Egitto. Da un lato la mancanza di acqua, cibo, medicine e di ogni altro bene di prima necessità; dall’altro camion carichi di tutte queste cose (che vengono fatti entrare con il contagocce, quando invece dovrebbero scorrere come un torrente in piena). Da un lato la morte, dall’altro la vita. Il valico di Rafah: oggi chiuso, domani aperto, dopodomani chissà, tu con questo passaporto passi, tu invece con quest’altro no, tu da questo lato ti salvi, tu da quest’altro lato ti arrangi, perfetta applicazione di quella logica spietata denominata da Primo Levi “i sommersi e i salvati” e crudelmente imperante su molte altre vicende umane.

Ma perché mai esistono un lato e un altro lato? La terra non è forse dotata di un’unica ininterrotta latitudine? Siamo noi, istituendo barriere e confini, a interrompere e a frammentare la sua continuità. Ma noi esseri umani non dovremmo essere tutti portatori dei medesimi diritti e forse persino “fratelli”? Abbiamo lodevolmente fondato le “Nazioni Unite”, ma a cosa si riduce questa nostra acquisizione se poi di fatto le nazioni rimangono disunite, separate da confini con palizzate sempre più alte e sempre più armate? Quando mai finalmente ci potremo sbarazzare di questi innaturali confini? Così protestano la tensione etica e l’immaginazione poetica dentro di noi, indignandosi di fronte alla grettezza dello status quo. 

Ma si tratta veramente “solo” di grettezza quando in gioco ci sono i confini? Di grettezza, di malvagità e sporchi interessi ce n’è di sicuro in quantità nel modo con cui i confini vengono concretamente amministrati, spesso salvando pochi privilegiati e sommergendo i più. Questo non significa però che l’istituzione del confine in quanto tale sia da condannare. Al contrario, io penso che abbia molto a che fare con la logica della vita.

Ogni nostra cellula possiede una membrana che la separa dalle altre e ne custodisce il nucleo e il citoplasma, a dimostrazione che l’esistenza del confine e della protezione che ne viene è anzitutto un’esigenza biologica. E quello che vale per la membrana cellulare vale per ogni altra realtà biologica: per molti animali è essenziale la marcatura del territorio. Questa logica della delimitazione dello spazio rappresentata dal confine si ritrova in altri quattro ambiti vitali della vita umana. A livello psicologico esistono precisi confini personali, come insegna la prossemica, la disciplina che studia i rapporti di distanza spaziale nella comunicazione degli esseri umani, secondo la quale ognuno di noi ha una sorta di scala quando interagisce con gli altri che è così configurata: una distanza pubblica per le relazioni con gli sconosciuti intorno ai tre metri, una distanza sociale per le relazioni tra conoscenti che arriva fino a un metro, la distanza personale che arriva fino a 45 centimetri per le relazioni con gli amici, e infine l’intimità che giunge a ridurre a zero la distanza abbattendo ogni confine. Ma quante sono le persone a cui concediamo di entrare nella nostra intimità?

Dopo la biologia e la psicologia, la logica del confine struttura in terzo luogo la società. Viaggiando in autostrada si incontrano i cartelli che indicano la fine di una regione e l’inizio di un’altra, ovviamente li possiamo anche eliminare ma ciò non toglie che alla fine del viaggio ci ritroveremo in un luogo con un’altra parlata, un’altra cucina, un’altra cultura. E se questo vale per le regioni, ancor più per gli stati. Ha scritto Primo Levi, proprio in I sommersi e i salvati: “Uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti non sarebbe popolo); una Deutschtum, una italianità, una hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia, lingua, cultura”. Le nazioni esistono, e immaginare “no countries” significa impoverire la biodiversità umana. È vero, i confini non sono altro che delle linee, a volte convenzionali altre volte radicate nella storia, ma tali linee segnalano l’inizio e la fine di due realtà umane diverse. Il compito consiste nel lavorare perché le nazioni siano davvero “unite”, il che però non significa prive di confini, ma con confini permeabili e collaborativi, esattamente come la membrana cellulare la cui esistenza garantisce alla cellula protezione e la cui permeabilità le consente la nutrizione. 

Esiste inoltre una quarta applicazione della logica dei confini nell’ambito etico-spirituale, la quale si può definire “senso del limite” (termine quest’ultimo che deriva dal latino “limes” che significa appunto confine). Secondo gli antichi greci il peccato per antonomasia è la cosiddetta “hybris”, la tracotanza, quella disposizione che fa perdere il senso del limite e del confine personale con la conseguente incapacità di limitare l’espansione vorace dell’ego. Chi è affetto da tale malattia spirituale non conosce confini e mira ad allargare la propria sfera di dominio senza il minimo rispetto per il territorio altrui. Anche la Bibbia ebraica stigmatizza duramente questo comportamento aggressivo: “Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo!” (Deuteronomio 27,17); e ancora: “Guai a coloro che aggiungono casa a casa e uniscono campo a campo, al punto da occupare tutto lo spazio, restando i soli abitanti del paese” (Isaia 5,8), un detto, quest’ultimo, che si adatta assai bene all’espansione illegale dei coloni israeliani nei territori palestinesi.

Infine la quinta valenza della realtà del confine riguarda la conoscenza. Ha scritto Paul Tillich, uno dei più importanti teologi del Novecento, fiero oppositore del nazismo che lo costrinse all’esilio: “Il confine è il luogo migliore per acquisire conoscenza”. Si riferiva a quella innata dialettica della mente umana in base a cui ogni realtà spinge spontaneamente verso un confine che tende a superare. Rispettare i confini non significa quindi consegnarsi alla staticità, ma significa al contrario valicarli. Per essere valicati, però, i confini devono esistere, il che vale per un popolo, una religione, un’ideologia politica, una teoria scientifica. Il punto fondamentale consiste nel volerli valicare non per volontà di conquista, ma per quell’inquieto spirito di conoscenza che è il fulcro della mente umana, quella scintilla che Dante, dando voce al suo Ulisse, descriveva come “l’ardore ch’io ebbi a divenir del mondo esperto” (Inferno XXVI,97-98). 

Vito Mancuso, La Stampa 5 novembre 2023