Vite che curano le nostre ferite

Etti Albert

Vite che curano le nostre ferite [PDF]

Il senso compiuto della vita spirituale consisteva per Etty Hillesum nell’imparare a curare la propria ferita, cercando di diventare un balsamo per quella degli altri. In questa prospettiva è molto significativo il seguente confronto: a Parigi sotto occupazione nazista Jean-Paul Sartre, filosofo ateo, scrive: “Il conflitto è il senso originario dell’essere-per-altri”; ad Amsterdam sotto occupazione nazista Etty in quegli stessi giorni scrive: “Ormai si tratta semplicemente di essere buoni l’uno verso l’altro, con tutta la bontà di cui siamo capaci”. Appare così che la peculiarità dell’autentica fede in Dio è la generazione di amore.
Da Dio questa fede generatrice di amore si estende in Etty alla vita, alla natura, agli altri, e anche al proprio sé con il suo desiderio, il quale per lei, ben lungi dall’essere annullato o “rinnegato”, va coltivato e potenziato: “Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori”; e ancora: “Io vivo la vita sino in fondo, ma sento sempre più che ho delle responsabilità verso quelli che vorrei chiamare i miei talenti”. Ben lungi dall’essere alienazione e fuga dal reale, la fede di Etty è dedizione e immersione nel reale per riscattarlo dalla sua implacabile contraddizione; e ben lungi dal tendere allo spegnimento della propria personalità, è genuino e fattivo amore del proprio autentico sé …

Albert Schweitzer afferma che il rispetto della vita di un essere umano comporta la protezione non solo della sua dimensione biologica, ma anche della dimensione psichica e di quella spirituale. Si spiegano così le denunce dei mali della civiltà industriale e tecnologica colti da Schweitzer con un secolo di anticipo, di cui questa frase del 1923 è un esempio: “Con la rivoluzione prodotta dalle macchine, la maggior parte di noi è sottoposta a un’esistenza lavorativa troppo regolata, troppo angusta, troppo faticosa. L’auto-determinazione e il raccoglimento interiore sono diventati difficili; la vita familiare e l’educazione dei figli danno segni di sofferenza. Tutti, in qualche misura, corriamo il rischio di diventare cose anziché persone. I molteplici danni materiali e spirituali causati all’esistenza umana rappresentano dunque il lato negativo delle conquiste della scienza e della tecnica”.
In quanto estensione della volontà di cura a tutto il genere umano e a ogni vivente, animali e piante comprese, l’etica del rispetto per la vita nasce quindi da una dimensione spirituale: da quella religione del bene di cui Albert Schweitzer è un’icona ideale e che è, a mio avviso, la religione più autentica di cui tutte le altre sono parziali manifestazioni. Forse proprio per questo Schweitzer un giorno arrivò a scrivere: “Qual è la conoscenza di Dio più vitale? Quella che deriva dalla mia esperienza di Lui come volontà etica”.
La pressione della tragedia in cui è immersa e che la schiaccerà conduce Etty a prefigurare una nuova immagine di Dio. Così scrive sul Diario il 12 luglio 1942 in un brano che intitola Preghiera della domenica mattina: “Mio Dio, sono tempo tanto angosciosi. Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa fare molto per modificare le circostanze attuali.
Quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi”.
La Tua casa in noi: sono parole intimiste di una giovane donna terrorizzata dal pensiero di dover presto morire e che per sfuggirne si rifugia in un inesistente quanto consolatorio mondo interiore? Lo si può pensare, ovviamente, ed è probabile che questo sarà il giudizio di chi considera se stesso e gli altri esseri umani nulla più di un bizzarro caso scaturito dalla roulette della selezione naturale e, guardando dentro di sé, ritrova solo l’istinto della sopravvivenza all’insegna del cosiddetto gene egoista. Ma è sufficiente avere qualche nozione sulla più autentica ricerca spirituale, e ancora prima una conoscenza un po’ più ricca del fenomeno umano, per ritrovare nelle parole di Etty Hillesum un ben altro spessore. Esse presentano infatti il medesimo risultato ottenuto dalle più grandi figure spirituali di ogni tempo, secondo cui un essere umano, quando scende nella profondità della propria coscienza, incontra la logica più autentica del mondo, che in Occidente viene normalmente denominata “Dio” e in altre parti in altro modo. Eccone alcuni esempi in ordine cronologico:
– secondo la prima Upanishad della tradizione hindu, l’Atman, il principio personale, coincide con il Brahman, il principio divino: “In verità è identico a Brahman questo Atman”;
– per il Buddha vi è coincidenza tra “isola del sé” e Dharma: “Perciò siate un’isola per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro! Che la vostra isola sia il Dharma, che il vostro rifugio sia il Dharma e non altro!”;
– per il taoismo vi è un cuore dentro il cuore, come afferma l’antico testo del Neiye: “Dentro il cuore un altro cuore racchiudi, dentro il cuore un altro cuore è presente. Questo cuore dentro il cuore è pensiero che precede le parole”;
– secondo la tradizione confuciana nell’interiorità umana si attinge la presenza del Tao: “La Via (Tao) è in voi”;
– Socrate sperimentava la presenza di un elemento divino nella sua interiorità: “In me si manifesta qualcosa di divino e di demonico… è come una voce”;
– secondo i filosofi stoici in noi abita una divinità, come diceva Seneca a Lucilio: “Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te”; e come ricordava Marco Aurelio a se stesso: “Non macchiare né agitare il démone che risiede nel tuo petto”;
– Gesù nell’interiorità umana vide la presenza del regno di Dio: “Il regno di Dio è dentro di voi”; il che portò sant’Agostino ad affermare: “La verità abita nell’uomo interiore”, concetto ribadito nelle Confessioni dove si rivolge così a Dio: “Tu eri dentro di me più del mio intimo”.
Per questo, quando Etty Hillesum scrive: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio”, si inserisce nella più alta tradizione della ricerca spirituale, di cui lei costituisce uno dei frutti più preziosi del nostro tempo.  
12 dicembre 1941, le nove di sera: “Sento di essere tutt’uno con la vita. Inoltre: che non sono io individualmente a volere o a dovere fare questo o quello, ma che la vita è grande e buona e attraente e eterna – e se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente, e eterna corrente, che è appunto la vita. È proprio in questi momenti –
e quanto ne sono riconoscente – che ogni aspirazione personale mi abbandona, la mia ansia, per esempio, di conoscere e sapere si acquieta, e un piccolo pezzo di eternità scende su di me con un largo colpo d’ala” (p. 270, corsivo mio; 86 ed. minor).
3 luglio 1942: “La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio… Ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l’inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli”.
4 luglio 1942, sabato mattina, le nove: “Un barlume di eternità filtra sempre più nelle mie più piccole azioni e percezioni quotidiane. Io non sono sola nella mia stanchezza malattia tristezza o paura, ma sono insieme con milioni di persone, di tanti secoli: anche questo fa parte della vita che è pur bella e ricca di significato nella sua assurdità, se vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile” (p. 681, corsivo mio; ed. minor 143).
Stesso giorno, a fine mattinata: “Ogni camicia pulita che puoi indossare è quasi una festa; e così pure se ti lavi con un sapone profumato, in un bagno che è tutto tuo per quella mezz’ora” (p. 684; ed. minor 146).
9 luglio 1942, giovedì mattina, le nove e mezzo:
“Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere” (160).
Le sue ultime parole pervenuteci si trovano su una cartolina postale indirizzata a un’amica, che Etty lanciò da una fessura del vagone bestiame che la portava nel campo di sterminio e che arrivò miracolosamente a destinazione: “Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: «Il Signore è il mio alto rifugio». Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando”.
Se Albert Schweitzer avesse letto queste magnifiche pagine, chissà quale musica di Bach avrebbe suonato per poterle al meglio celebrare.

Vito Mancuso, La Stampa 30 settembre 2022