Se vuoi la pace, prepara la pace

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Se vuoi la pace prepara la pace [PDF]

“Una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina”: con queste parole Papa Francesco ha invitato “tutti” a un gesto personale di partecipazione e solidarietà. Per i cattolici è logico, visto che oggi è il Mercoledì delle Ceneri quando essi sono già di per sé tenuti “all’astinenza e al digiuno” (canone 1251 del Codice di Diritto Canonico). Ma quale può essere il valore dell’appello per i laici, per i credenti non cattolici e anche per i cattolici “così così” sempre più numerosi?
L’obiezione infatti sorge spontanea. A che serve il digiuno? “Si vis pacem, para bellum”, recita il celebre adagio: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. E se invece voglio la guerra? La risposta è scontata: “Si vis bellum, para bellum”. Ne viene che, in ogni caso, che io voglia la pace o la guerra, devo preparare la guerra, non digiunare e pregare. Penso che si spieghino così i 1981 miliardi di dollari della spesa militare globale del 2020, cifra record in progressivo aumento ovunque nel pianeta, grazie a cui peraltro alcuni Stati, tra cui l’Italia, possono oggi aiutare la resistenza ucraina inviando armamenti. Mi sembra di sentire cantare Antoine quand’ero ragazzo: “Se sei bello, ti tirano le pietre, se sei brutto, ti tirano le pietre”. La guerra, come le pietre, è il nostro inesorabile destino? …

Il Mercoledì delle Ceneri è detto così perché secondo il rito millenario il sacerdote impone della cenere sul capo o sulla fronte dei fedeli e dice: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” (le parole di Dio ad Adamo mentre insieme a Eva lo cacciava dal paradiso terrestre, cfr. Genesi 3,19). Ma occorre chiedersi: è proprio quello di cui “oggi” abbiamo bisogno? Dopo oltre due anni di Covid, nel mezzo della guerra di Putin che mette a ferro e fuoco l’Ucraina alludendo esplicitamente alla minaccia nucleare, con tutti i problemi che le sanzioni contro di lui creeranno anche alla nostra economia, è davvero sensato parlare di “preghiera e digiuno”? Non sarebbe più salutare seguire il più sereno consiglio di Lorenzo de’ Medici nei Canti carnascialeschi secondo cui “chi vuol esser lieto, sia”, visto che tanto “di doman non v’è certezza”?   
Io non amo né il Carnevale né la Quaresima, sono attratto piuttosto dalla pacata regolarità della saggezza classica, anzitutto socratica, la quale non sente il bisogno di eventi o momenti straordinari ma aderisce alla logica modesta e ordinata delle cose nella sobrietà quotidiana, e per questo non ricerca né la crapula né il digiuno. Tuttavia a volte la Storia bussa con incontenibile violenza e la coscienza ne viene sconvolta sentendosi obbligata a prendere posizione, esteriormente e interiormente. Esteriormente lo fa schierandosi contro l’invasore in tutte le possibili forme e sostenendo le vittime con aiuti concreti a livello economico. E interiormente? È mai possibile limitarsi a una dichiarazione, poi magari a una donazione, e alla fine rimanere insensibili o addirittura darsi ai divertimenti come alcuni nostri politici (noti amici di Putin) hanno fatto durante la prima notte di guerra? Io penso che il compito della coscienza moralmente retta sia di rispondere all’appello della Storia generando consapevolezza ed empatia, così da assumere su di sé un po’ del dolore del mondo partecipandovi in prima persona.
“Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, ovvero “ricordati che devi morire”. Abbiamo riso tutti alla scena del film di Benigni e Troisi quando i frati di Savonarola li ammonivano proprio con queste parole e Troisi con quella sua indimenticabile timidezza rispondeva: “Ora m’ho ‘o segno”. Lo sappiamo tutti che dobbiamo morire, l’umanità l’ha sempre saputo; anzi, si può dire che siamo giunti a creare cultura proprio a partire da questa consapevolezza, amara eppure luminosa, che ci distingue da ogni altro vivente. Da qui è nato il primo poema dell’umanità, l’Epopea di Gilgameš, da qui gli antichi greci presero a chiamarsi proprio così, “i mortali”, Platone riassumeva lo scopo della filosofia come “imparare a morire”, Seneca lo ripeteva con insistente dolcezza all’amico Lucilio. Oggi a Kyiv e nelle altre città ucraine ci pensano le bombe di Putin a somministrare notte e giorno questo insegnamento filosofico. Quanti sono i civili finora ammazzati? Quanti i soldati ucraini? Quanti i soldati russi? Quanti gli esseri umani ridotti in cenere dalla sanguinosa liturgia del Sommo Sacerdote del Cremlino?
Ma se la sapienza insegna a imparare a morire, noi però, nel frattempo, viviamo. Ebbene, che cosa significa vivere da esseri umani qui e ora, in modo da risultare all’altezza di questi giorni che ci ricordano così intensamente il nostro destino? Sostanzialmente due cose: capire e amare. Ognuno di noi è intelligenza e volontà, e, se usate bene, l’intelligenza capisce e la volontà ama. Di conseguenza, vivere da esseri umani significa usare bene l’intelligenza ottenendo conoscenza e usare bene la volontà generando amore.
Ieri ricorreva il decimo anniversario della morte di Lucio Dalla, di cui ho avuto la fortuna di essere amico, e mi vengono in mente le parole di una canzone del 1993 scritta durante la guerra balcanica, Henna: “Io credo che il dolore, che è il dolore che ci cambierà”. Il dolore opprime, si sa, ma può anche insegnare. È una consapevolezza antica, Eschilo parlava di una legge istituita da Zeus secondo cui “con il dolore si impara” (Agamennone, 411). Che cosa si impara guardando in faccia il dolore dei viventi? Che oltre alla ragione che logicamente continua a dichiarare “Si vis pacem, para bellum”, c’è in noi un'altra facoltà, spegnendo la quale si cade nel cinismo più cupo e che possiamo chiamare fiducia o solidarietà, la quale replica: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. In che modo? Iniziando a diventarla tu stesso. Per questo io penso che abbia senso accogliere l’invito del Papa al digiuno per la pace in Ucraina, a prescindere dalla fede e a prescindere da come lo si pratichi: se rimanendo del tutto senza cibo, o diminuendolo, o mediante altre forme di astinenza. L’importante è assumere su di sé un po’ del dolore del mondo e trasformarlo in conoscenza e in amore.

Vito Mancuso, La Stampa 2 marzo 2022