Noi siamo il nostro linguaggio, proteggiamolo dalla volgarità

«Etica e spiritualità riguardano ogni essere umano: sono la nostra garanzia di sopravvivenza»; intervista di Elena Nieddu per il Secolo XIX, 30 maggio 2019

Noi siamo il nostro linguaggio [PDF] Intervista a Il Secolo XIX [PDF]


Schermata 2019-05-31 alle 14.39.41Senza etica e senza spiritualità non c’è sopravvivenza». Parola di Vito Mancuso, teologo e giornalista, fra gli ospiti del Festival della Parola, a Chiavari fino a domenica. Oggi alle 18.30 in piazza N.S. dell’Orto, intervistato da Luca Ubaldeschi, direttore di Il Secolo XIX, Mancuso apre la sezione “Il dialogo fondamento di nuova umanità” curata da Goffredo Feretto e Helena Molinari.

Mancuso, la “retta parola” è, per il buddhismo, uno dei raggi del sentiero verso la liberazione. In che modo parlare bene ci rende persone migliori?

«Oggigiorno, noi esseri umani abbiamo pochi punti fermi. Sono venuti meno quelli della religione e delle ideologie politiche. La scienza ci pone soprattutto delle domande, mentre la tecnologia ci offre scenari inquietanti di controllo. Inoltre, continua l’inquinamento progressivo del Pianeta. Uno dei punti fermi è, quindi, la parola, intesa nel senso di “termine”. Le parole non mentono. Possono mentire le frasi, i discorsi composti da frasi, i libri fatti di discorsi, non le parole».

Quale tipo di sicurezza possiamo trovare nel verbo?

«Quella di cui hanno bisogno i viventi per sentirsi veri. Confucio parla di “rettificare i nomi”, ovvero fare in modo che le parole tocchino in modo diretto le sostanze. Questo è un lavoro spirituale che non riguarda soltanto la religione, bensì ogni essere umano» …

Soprattutto, verrebbe da dire, è ancora più importante in un momento storico in cui si sente continuamente urlare.

«Il linguaggio esprime l’interiorità. Dall’intonazione del linguaggio si capisce qual è l’energia interiore che ci muove. È come un esame del sangue o, meglio, è un esame della psiche. Viviamo in una crisi morale evidente e il linguaggio ne risente, a cominciare da quello dei politici».

Cosa cambia, rispetto al passato?

«Ricordo il linguaggio televisivo di “Tribuna Politica”, quando ero piccolo. Era attento, rispettoso, forbito, pieno di cultura. Il linguaggio di oggi è invece banale e volgare, è stata sdoganata completamente la volgarità, anche sugli stessi giornali».

Cosa possiamo fare per proteggerci da questa violenza, verbale e non solo?

«Prima di tutto, dobbiamo capire che la volgarità è sporcizia, che le parolacce sporcano, che avere un linguaggio volgare vuol dire, a poco a poco, diventare violenti, arroganti. Noi siamo il nostro linguaggio. Anche la difficoltà nello scrivere, nel porre la punteggiatura, significa incapacità di ascoltare l’altro. Come proteggerci, dunque? Non credo nell’atarassia. Penso, piuttosto, che ci si possa difendere da una passione coltivandone una più grande. Quindi, appassionandosi alla bellezza, coltivando il bello, il bene, l’armonia».

Ha usato il verbo “coltivare” per indicare l’impegno necessario a far crescere qualcosa. Come mai oggi pretendiamo tutto pronto? Perché parliamo sempre di diritti e quasi mai di doveri?

«Noi siamo lusingati, in ogni momento, dalla pubblicità. Viviamo in un immenso spot che parla la lingua dei diritti, della facilità di acquisto, del possedere. È un basso continuo suadente, inarrestabile. Così viene meno l’etica del dovere: non c’è più il “tu”, non c’è più in “noi”, resta solo una grande narrazione del “lavoro-produco-pago-pretendo”. Per questo motivo, c’è un lungo lavoro da fare sul piano estetico. Bisogna far capire che è affascinante unirsi agli altri per godere della natura, della cultura… O si fa questo o falliamo come esseri umani. Non saremo più “Homo Sapiens Sapiens”, ma “Homo Faber” e, soprattutto “Homo Consumens”. Ecco perché etica e spiritualità sono il nostro kit di sopravvivenza».

Non esiste più il “noi”, diceva. In che senso?

«Il “Noi” esiste, eccome, ed è il noi del gruppo: noi contro quelli, noi italiani…Viceversa, non esiste più quel “noi” in grado di un abbraccio globale, capace di abbracciare il bene di tutti. Ciò presupporrebbe una rinuncia all’ “io”, al mio “io”, in funzione di una sinfonia. Lo racconta molto bene Federico Fellini in “Prova d’orchestra”. Se manca la capacità di ascolto, non c’è più una musica comune».

Quello che manca, in Italia, è l’attenzione all’altro?

«L’Italia è un Paese che riflette poco perché legge poco: in media sei italiani su dieci non hanno alcun contatto con un libro. Di conseguenza, c’è poca attenzione al bene comune, perché tutto parte sempre dalla cultura».