Obbedienza e libertà

Recensione di Roberto Celada Ballanti Università di Genova

 

Può l’obbedienza, nel dominio del religioso, predicarsi della libertà? Si può essere religati e, in tale religamen, restare liberi? La diade che dà il titolo all’ultimo libro di Vito Mancuso reca in sé questo plesso problematico, questa res, sgomentante appena se ne misuri il peso, l’intima portata: non solo tale da concernere densamente il destino e la destinazione etica di ciascuno ma, più universalmente, tale da riguardare uno dei nodi – forse il nodo per eccellenza – della religiosità occidentale….

 

Lo sapeva bene Socrate, che in quel “Dilemma di Eutifrone” che sta al centro del dialogo platonico omonimo (santo è ciò che corrisponde alla volontà degli dèi, oppure gli dèi amano ciò che è intrinsecamente santo?) aveva già posto l’alternativa radicale tra una religiosità fondata sul principio di autorità (il volontarismo teologico del sacerdote Eutifrone), ovvero sul principio di coscienza, chiamata a riconoscere in libertate et novitate spiritus ciò che è vero e buono (ed è la posizione di Socrate).

Il passaggio dal politeismo greco al monoteismo ebraico e cristiano non ha sanato la ferita di quel Dilemma, con l’abissale aut-aut che impone, così che, pur in figure diverse e in forme metamorfiche, esso è tornato e ritorna, inevaso, nel cuore del cristianesimo. E metamorfosi del Dilemma di Eutifrone può ben considerarsi la dostoevskiana Leggenda del Grande Inquisitore che rappresenta uno dei centri focali del volume di Mancuso.

Da Atene a Siviglia, si potrebbe dire, quel Dilemma si ripropone. Solo che al posto di Socrate ed Eutifrone sono di fronte Cristo e l’Inquisitore, che riformula l’arbitrarismo teologico dell’antico sacerdote, dietro a cui fa capolino il nichilismo del “se Dio non c’è tutto è permesso”. La perturbante libertà di Cristo ritornato nel luogo dove ogni giorno si bruciavano eretici ad maiorem Dei gloriam - la piazza della cattedrale di Siviglia -, pieno di compassione per quella folla schiava, prona all’autorità, silente sempre, salvo che di fronte alla bimba stesa nella bara che gli viene portata e che si leva alle sue parole (“talitha kumi”, “alzati bambina”), luminoso per la potenza che da lui promana, stride con lo sguardo aggrottato, accigliato dell’Inquisitore, cui basta un cenno alle guardie per far trascinare via dalla piazza quell’inquietante presenza, che verrà a visitare nottetempo in carcere.

Il farmaco contro l’arrischiante dono della libertà recato da Cristo, ossia la correzione dell’opera di Dio (“abbiamo emendato la Tua gesta, e le abbiam dato per fondamento il miracolo, il mistero e l’autorità”), precede, nel terribile, fluviale monologo notturno dell’Inquisitore in carcere, il verdetto implacabile: “Ti farò bruciare per esser venuto qui a darciimpaccio”.Poi,l’Inquisitorenonparlapiù.GlipesailsilenziodiCristo, cheallafine si accosta al vecchio e lo bacia sulle labbra esangui. Un fremito contrae gli angoli della bocca dell’Inquisitore, dalla quale escono le estreme parole: “Va’, e non venire più”. Il prigioniero si dilegua nella notte di Siviglia. E nella notte del mondo.

L’ermeneutica che Mancuso offre di questa parabola è originale: il bacio di Gesù segna il perdono dell’Inquisitore alla luce della consapevolezza che, alla fine, non è lui il colpevole, ma l’istituzione della quale è strumento e braccio. L’Inquisitore, certo, non è l’Eichmann della Arendt, c’è in lui pensiero e profondità, una precisa antropologia, tragicamente pervertita dalla logica del potere che ha oscurato la libertà dello spirito.Nondimeno, aveva ragione Karl Jaspers nell’opera Sulla verità a parlare di una logica “totalitaria” che sta al fondo della Katholizität. Là si cela sempre la “banalità del male”, che si combatte solo con il principio che fonda la arendtiana “vita della mente” e, si può ben dire, l’Occidente stesso: il principio dell’irriducibilità della coscienza all’apparato, all’istituzione. Lo stesso che riecheggia in una lettera inviata ai discepoli (giugno 1415) dal Concilio di Costanza da Jan Hus che, come tanti eretici vittime dell’Inquisizione, cui il libro è dedicato, viene richiamato, e che così scrive a chi gli chiedeva di sottomettersi al Concilio: “Anche se l’intero mondo lo sostenesse, io, avendo la mia ragione, non lo sosterrei senza la resistenza della mia coscienza”.

L’evocazione e la rivendicazione di tale principio – il primato della coscienza o della “hairesis” – sta al centro del libro e della teologia di Mancuso. Il Cristo di Dostoevskij, come Socrate davanti a Eutifrone e al tribunale ateniese, rimette in gioco la questione della libertà nell’esperienza religiosa ma anche, come l’autore invita a riflettere, schiude a un’altra nozione di verità: non fondata sulla cogenza e perentorietà del principio di identità (A=A, dove A corrisponde a quanto fissato volontaristicamente dal potere), ma sul principio di contraddizione (si scorgono le radici hegeliane del pensiero di Mancuso, pur di uno Hegel corretto a partire da Florenskij), che sa assumere l’intima drammaticità del vivere, l’immane potenza del negativo, con le sue antinomiche Entzweiungen. In nome di questa idea antinomica di verità, corrispettivo del principio energetico che, per Mancuso, sostanzia l’essere – dalla materia allo spirito -, l’autore può fare proprio il motto episcopale di Martini e collocarlo al cuore del libro, cifra liberante di un’altra religiosità: “Pro veritate adversa diligere”,“esserecontentodellecontraddizioni”,ovvero guardareinvoltolelacerazionidel vivere con severa fermezza, non eluderle per legittimare l’istituzione.

Proprio da tale esperienza originaria, del resto, legata alle incomponibili antinomie e lacerazioni che la structura mondi esibisce, muove l’idea di religione qui affermata. La religione ha intimamente a che fare con quelle antinomie. Che è come dire che essa ha a che fare con la radice stessa della vita. Siamo qui nel centro di un pensiero essenziale, di un respiro e di un orizzonte che sottrae la religione all’abbraccio soffocante di teologie confessionali e Chiese per restituirlo allo spazio aperto (“laico”) della vita e del mondo. La religione, in tale direzione, si potrebbe dire con Paul Tillich, autore caro a Mancuso, è l’interesse supremo, lo stato di chi è afferrato da qualcosa di incondizionato. E, ancora con Tillich e col suo “principio protestante”, si può aggiungere, la religione necessita in ogni suo momento di un processo ermeneutico di emendatio che sappia sottrarla alle oggettivazioni dogmatiche, agli irrigidimenti autoritativi, e restituirla alle sue origini, che stanno nella coscienza, là dove si allacciano in un nodo luminoso religiosità e libertà.

Vale, in tal senso, che per essere vitale una religione deve accogliere quanto nega gli irrigidimenti chiesastici, come se l’incondizionato in essa operante si levasse a spezzare le chiusure che ne soffocano lo spirito rinserrandone la pulsazione vitale, l’energia dello spirito. Una religione che emargini, perseguiti, come troppe volte è accaduto nella storia delle Chiese, chi dà voce a tale dimensione di ulteriorità, di protesta, è condannata alla sterilità di un’estenuata routine ecclesiastica, di potere o devozionale. È condannata, nel farsi “mausoleo della religione”, per dirla con lo Schleiermacher dei Discorsi sulla religione (1799), museale depositum di uno spirito che non c’è più perché migrato altrove, magari

fuori dalle istituzioni ecclesiastiche, come largamente avviene nel nostro tempo. Così, l’uomo contemporaneo, non irreligioso, ma aporeticamente religioso, appare per lo più indifferente alle esposizioni teologiche o magisteriali che cristallizzano la fede in forme incapaci di parlargli in modo esistenzialmente vivo delle questioni ultime, destinali. Avvilendo la profondità della parola biblica nell’aridità di un linguaggio in cui poco filtra la luce dell’esistentività, della poieticità, dell’ispirazione religiosa autentica, in tali esposizioni non si avverte più che una debole eco di quel baudelairiano “ardent sanglot qui roule d’âge en âge, et vient mourir au bord de votre éternité” (Les Phares), che rappresenta il presupposto di ogni teologia degna del nome. Si tratta di quell’ardent sanglot che si avverte pulsare da cima a fondo nel libro di Mancuso, sotto forma di protesta, di ricerca inquieta, al fine di sceverare l’autentico dall’inautentico, com’è di ogni processo ermeneutico

severamente coinvolto con la res de qua agitur. Per questo, per riecheggiare nuovamente Tillich, sembra che la prima parola che la

teologia deve dire agli uomini del nostro tempo sia una parola paradossalmente “contro” la religione. Martin Buber ha significativamente scritto che “non c’è nulla di più adatto di una religione per oscurare il volto di Dio”. E, come Buber, Mancuso proclama una sorta di “apriori religioso” della Relazione. Correggendo Goethe (p. 43): “In principio era la Relazione”, ossia in principio era il Logos (relazione, ordine), che rende pensabile quell’”ottimismo drammatico” che è il sintagma forse più idoneo a definire la posizione di Mancuso. Quello, anche, che può vincere la tentazione mortale del me phynai del detto silenico (“meglio sarebbe non esser nati”) e, insieme, opporsi alla più sgomentante delle parodie della pericope che apre il Vangelo di Giovanni scritta da Nietzsche in Umano, troppo umano (II, 22), il pensatore del quale il nostro tempo, come scrive Mancuso, è chiamato a raccogliere fino in fondo la sfida: “In principio era il Non-senso (der Unsinn), e il Non-senso era presso Dio! E Dio (divino) era il Non-senso!”.

“La teologia – scrive Mancuso – deve diventare libera ricerca spirituale” (p. 174). Una conseguenza di tale torsione dal principio di autorità a quello della libertà (o di autenticità) – che formulo in dialogico synphilosophein con l’autore – mi pare cruciale evidenziare: una volta affrancato il discorso su Dio dal principio di autorità, la teologia non finisce in prossimità della filosofia? Dove crollano le idee di soprannatura, grazia, miracolo, Chiesa, nell’accezione dogmatica, non viene congedato con ciò stesso il senso della teologia confessionale, destinata ad avvicinarsi alla filosofia, che da sempre, dalle sue origini, si è pensata appunto come libera ricerca del divino, come libera fede nella Trascendenza senza porsi il problema, come argutamente scrive Kant nel Conflitto delle facoltà, se essa “debba precedere col lume la sua gentile signora o seguirla, reggendo lo strascico”?

Non è qui, nel transito dal principio di autorità al principio di libertà, o di coscienza, il fondamento di quella teologia laica perseguita da Mancuso? Nell’incapacità, che non è “innocente” ma ha una precisa genealogia, di pensare Dio e il discorso teologico laicamente, sta una delle chiavi di lettura della crisi religiosa del nostro tempo: ciò che ha allontanato tante coscienze da quei domìni, i quali odorano troppo di sagrestia per occuparsene da laici, in modo pro-fano, fuori dal fanum, dove stava Gesù o sull’agora, dove Socrate curava le anime.

Ripensare la grammatica di una Religio laici è un compito immane del nostro tempo. A

tale compito attende l’elaborazione teologica di Mancuso, di cui questo libro fissa le coordinate metodiche, in vista di nuovi sviluppi, recando ancora un apporto cruciale.

Roberto Celada Ballanti Università di Genova

 

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