«Il mio Dio si chiama libertà»

"I suoi libri vendono decine di migliaia di copie. Qui ragiona sulla sua visione della spiritualità. Facendo un netto distinguo tra fede e Chiesa". Intervista di Vito al "Mattino" di Padova 

di Silvia Ferrari.

È un teologo filosofo che sa come dialogare con i lettori, siano essi credenti o atei. Uno scrittore dalla prosa schietta, un pensatore dalla dialettica immediata. I suoi libri raggiungono ogni volta un successo editoriale sconcertante: l’ultimo, Io e Dio. Una guida dei perplessi, edito da Garzanti, ha raggiunto in meno di sei mesi otto edizioni e più di centomila copie vendute. Vito Mancuso è stato definito «il teologo che vuole rifondare la fede» per le sue posizioni non sempre allineate con le gerarchie ecclesiastiche, ma sa rassicurare e guidare anche chi nella fede non trova consolazione. È in questi giorni in Veneto per presentare il suo ultimo libro: dopo Vicenza e Bassano del Grappa, è passato a Venezia alla Fondazione Giorgio Cini per un seminario della «Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri»; poi a San Donà di Piave alla libreria Moderna; e sarà a Belluno nell’aula magna dell’Istituto Catullo mercoledì 1 febbraio alle 18. 

Prof. Mancuso, si parla spesso di un allontanamento della società attuale dalla fede e dalla spiritualità, ma i suoi libri raggiungono numeri impressionanti. Secondo lei, qual è la ragione del suo successo? 

«Innanzitutto non è un fenomeno che riguarda solo me perché i libri di spiritualità in genere, rispetto a qualche anno fa, hanno più attenzione. Io mi inserisco all’interno di un fenomeno più generale di attenzione, di richiesta di spiritualità e di criticità nei confronti della religione. C’è una domanda di spiritualità molto forte nel nostro paese alla quale l’offerta della religione tradizionale per molti aspetti non riesce ad andare incontro. I miei libri, probabilmente, riescono ad incrociare questa domanda diffusa: sia per il linguaggio che curo molto e per la chiarezza espositiva; sia per il fatto che io, nel pensare il messaggio teologico, ho sempre molta attenzione nel trovare collegamenti con la dimensione filosofica e, dove è possibile, anche con quella scientifica. La dimensione veritativa del messaggio cristiano non viene annunciata in modo categorico, ma si confronta con prospettive opposte o diverse». 

Questa nuova attenzione alla spiritualità che lei rileva nella società di oggi da dove deriva? 
 

«Deriva dal disagio, ovviamente. Le cose che sorgono molto spesso sorgono dal negativo. Anche la stessa religione sorge dal negativo e dal timore. Quello che scriveva Petronio, “primus timor fecit deos” (Fu la paura che creò gli dei), è vero. Il negativo è non solo ciò che toglie, ma anche ciò che genera. C’è quindi innanzitutto un disagio dell’anima contemporanea che si trova orfana delle speranze politiche, delle speranze di cambiamenti strutturali per una società più giusta, che si trova disorientata dalla globalizzazione e al cospetto di una situazione economico-finanziara critica. Da tutto ciò nasce un disagio che porta l’essere umano a scendere più in profondità verso se stesso. Non in tutti, ma nelle persone più sensibili questo disagio di fondo, invece di scaturire nella disperazione, nel carpe diem o nello scetticismo, scaturisce in un bisogno di profondità e di raccoglimento».

La sua è una teologia della libertà, la proposta di pensare Dio come libertà e amore. Ma non è praticabile solo da pochi illuminati? La fede non è spesso paura o obbligo? 
 

«Sì, probabilmente in molti nasce da questa dimensione: paura di fronte al futuro e al destino di morte che riguarda tutti; l’obbligo forse resta in qualcuno, ma va sempre più diminuendo. Non c’è mai un inizio puro delle cose. Se devo dire qual è il senso ultimo dell’essere umano, guardando me stesso e il fenomeno umano, se devo dire qual è lo specifico dell’uomo rispetto a qualunque altro essere vivente, questo è proprio quello che io chiamo libertà. Sono un fervente sostenitore del libero arbitrio, del primato dell’etica e dell’etica come “principio responsabilità”, per citare Hans Jonas. Lei dice questa è una cosa per pochi… sì, per molti aspetti è vero, ma cosa bisogna fare? Anche la grande arte e la grande musica sono per pochi. Rimane l’appello a una religiosità che sia autentica e veramente degna di un uomo, che non può non partire dalla libertà. Non intendo una libertà fine a se stessa, ma la libertà di consegnarsi ad una dimensione più grande. Per citare le parole di Gesù: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”». 

In Italia uno dei maggiori ostacoli alla religione è dato dall’identificazione tra Dio e Chiesa. Si può cambiare questo assioma? 
 

«È verissimo: quando si parla di Dio nella coscienza media degli italiani, l’immagine che immediatamente arriva è non solo la Chiesa, ma ancora di più il Papa. Su questo la chiesa cattolica ha una grossa responsabilità: l’ossequio al pontefice è diventato il discrimine in base al quale essere o non essere cattolici. Penso che sia necessario distinguere la dimensione ecclesiastica dalla dimensione di fede che è nettamente superiore. Credo che questa coscienza possa cambiare e lo credo a partire dai segnali che ricevo in base alla mia opera».

Che cosa pensa dell’intervento del Vaticano sull’opera teatrale di Romeo Castellucci “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, bollata come «pièce blasfema e offensiva nei confronti dei cristiani»? 
 

«Non penso granché bene. Oggi bisogna motivare le cose e il Vaticano non può permettersi di aggiungere benzina sul fuoco in questo momento senza dare motivazioni. Se effettivamente lo spettacolo è blasfemo bisogna motivare il perché. Questa superficialità nel trattare questioni così importanti come la libertà di espressione a livello artistico, tocca, per così dire, un dogma delle società laiche. Lo si può fare, ma occorre motivare». 

Il Mattino, Martedì 31 gennaio 2012  «Il mio Dio si chiama libertà» link