Lezioni di leggerezza: Vito Mancuso

Intervista a Vito di Laura Crespi (LA STAMPA blog)

Laura: Alzandoci e osservando il pianeta dall’alto, lo scenario in cui recita il mondo pare essere composto essenzialmente da due elementi: storia e natura. Concetti dicotomici: da un lato storia, cioè l’uomo e il suo passato, una serie di eventi accaduti, che, possono essere raccolti, compresi, controllati dalla mente; dall’altro natura – da nascitura, participio futuro del verbo nascere, quella che è per generare – rappresenta il futuro, il salto nel buio, ciò che non si può com-prendere. Il mondo non lascia un gran che di scelta, nessuno può decidere di vivere fermo nel passato e di non essere trascinato avanti; come si può accettare questa dinamicità forzata senza esserne insofferenti?  

Vito: Di tutto questo occorre vederne la dimensione positiva oltre che negativa: gli esseri umani sono portati da sempre a pensare al tempo in negativo, ad esempio l’assonanza tra kronos, il tempo, e Kronos, il dio che divora i suoi figli, è notevole e rimanda a una dimensione di insicurezza ed impotenza, oppure penso ad una predica di S. Agostino in cui, parlando di kras, il domani, ai suoi fedeli di Ippona, afferma: “kras, kras, vox corvina”. D’altra parte però, Giordano Bruno asserisce, “il tempo tutto toglie e tutto dà”, ricordando la duplice faccia del tempo: infatti senza toglimento non ci sarebbe creazione, evoluzione, generazione e gioia del nuovo. La fede pone nell’uomo il pensiero che la dimensione generativa sia superiore a quella degenerativa producendo fiducia in questo processo evolutivo, pur ammettendo l’esistenza di entrambe. Non a caso la festa della Nascita, della vita nuova, il Natale, è posta nel momento più buio dell’anno: interessante contrasto…

D’altra parte anche i nostri genitori – chi ci ha generato, nel senso più ampio del termine – sono un’antinomia: parlo di mater, la materia, quella cosa fisica, plasmabile, che può essere accumulata, modellata; e di pater – da cui patria, la terra dei nostri padri – che riferendomi in generale al genere umano, può essere considerata solo il cielo, quindi l’elemento spirituale. Siamo un esercito di terracotta, riempito del soffio leggero dell’anima. Cosa tiene unite queste due entità così diverse?  

Sicuramente dentro ognuno c’è questa doppia dimensione materiale e spirituale, e l’umanità ha sempre avvertito questa duplicità; tutte le antropogonie parlano di un principio naturale e di uno divino, per fare un esempio ricordo il poema mesopotamico Atrahasis, in cui si parla della creazione come impasto di argilla con carne e sangue del dio immolato Weʾe – dal poema il dio che ha l'intelligenza -. Detto questo però, la storia ci presenta da sempre un matrimonio difficile tra i due ambiti, e spesso uno tende a prevalere sull’altro. Nel passato spesso si tendeva ad esaltare la spiritualità arrivando a demonizzare e reprimere il lato fisico, corporeo. Nel nostro tempo, al contrario, siamo immersi nel materialismo, dimenticandoci della dimensione dello spirito, che invece è quella che esalta la peculiarità del singolo; infatti, mentre la mater ci equipara – nella materia siamo tutti simili – , spirito vuol dire sia specificità di ognuno, perché intellettualmente siamo tutti diversi, che libertà, dalle dipendenze e dalle contingenze della dimensione materiale. Dunque l’unica via è capire come il matrimonio sia in effetti un nostro importante patrimonio; a mio avviso, infatti, dalla materia e dalla sua evoluzione che si genera lo  spirito, convinzione che poi è il paradigma dell’emergentismo che è alla base della mia visione del mondo.   

Penso che oggi una delle cause dell’insofferenza verso la spiritualità sia il fatto che si senta la religione come un legame, come un cordone ombelicale che tiene il bambino legato al pater e che però, una volta cresciuti, diventa superfluo e dunque si sente il bisogno di tagliarlo; insomma prevale la percezione dell’aspetto vincolante della rispetto al suo essere potenziamento della libertà.  

In realtà spesso nella storia si è esaltata questa caratteristica vincolante, come mezzo di controllo delle masse da parte di regimi e regnanti. A ben vedere però, la religione è stato uno strumentum regni, ma anche un mezzo di rivoluzione, penso ad esempio alle prime comunità cristiane o ad alcuni movimenti francescani del Medioevo. Oggi spesso la religione viene vista come un peso, un legaccio ma in definitiva il senso ultimo di questa è quello di una grande ribellione alla società e ai suoi poteri, è l’anima che si svincola dalle imposizioni, dalla superficie, dai lustrini di questo mondo. Il suo senso finale è quello di slegare l'uomo dai poteri terreni, non per lasciarlo solo, sperso, ma per legarlo a filo d’oro al Bene, a quella dimensione in cui non si è più in vendita e si vive solo per il Bene stesso – d’altra parte religione deriva da religare, legare -.  E così l’anima dice un sonoro No alla logica e alle seduzioni del mondo, altrimenti la religione diventerebbe essa stessa un potere terreno e sarebbe un po’ il sale che perde il suo sapore.   

Quindi si direbbe che stiamo parlando di un legame che non lega ma che, al contrario, dà libertà.

Sì, sono libero, ma non secondo l’arbitrio, sono libero perché non sono comprabile, perché il mio cuore è vincolato ad un tesoro più grande.  

Torniamo al bambino frutto di mater + pater, il suo sguardo è perso nelle tenebre di un tutto in-comprendibile, a un certo punto però ecco, si apre uno spiraglio, una scintilla illumina i suoi occhi, l’intuizione, qualcosa che non è ancora una luce di conoscenza; se la ragione arriva alla fine della giornata, al crepuscolo, l’intuito si alza all’alba, è pretesa di vedere ciò che ancora non c’è. Questa pre-tensione è uno slancio verso l’ignoto, avventato perché privo del paracadute della ratio, ma anche coraggioso perché è spinta ad uscire da se stessi per tentare un abbraccio, seppur parziale, verso il mondo. Questo atteggiamento ho sempre pensato fosse un privilegio degli artisti: l’intuire una verità immensa per le forze umane, da esprimere poi con la materia e la tecnica dando forma a un’esperienza estetica, che desse conto della precedente esperienza estatica – come ek- stasis, lo star fuori dal sé -. Credo che al principio del fare artistico, ci sia dunque una proiezione di sé all'esterno, ma anche un atto di fiducia verso ciò a cui ci si protende; parliamo della similitudine tra atto artistico e atto di fede.   

Sono d’accordo sull’analogia tra arte e religione perché entrambe vivono del primato dell’oggetto, dell’obiettivo; è cioè il primato di una dimensione più grande che si impone al soggetto, e in questo imporsi, genera passione. La stessa parola estetica significa sensazione, sentire coi sensi, e questo sentire è ciò che genera sentimento, quindi estetica e sentimento hanno comunanza, e la religione vive della stessa origine. Io pongo il sentimento come elemento fondante della religione, un sentire che genera pathos, passione, che si esplicita a volte in modo negativo, come sofferenza, a volte positivo, come ciò che dà energia, che appassiona.  

In tutto ciò si coglie però un atteggiamento passivo da parte del soggetto.  

All’inizio lo è. In primo luogo c’è la dimensione passiva, altrimenti non ci sarebbe né estetica né religione, ma piuttosto estetismo, la volontà di essere creativo, di stupire, e tutto ciò sarebbe immaturo. Si ha invece grande arte e grande spiritualità laddove il soggetto si apre e diviene il luogo in cui si dà una rivelazione del più grande. Non si può ovviamente prescindere dalla soggettività, ma questa diviene in grado di generare estetica solo se capisce di non essere lei autrice di questa dimensione più ampia. Alessandro Bergonzoni di sé dice: “io non sono un autore, sono un autorizzato, non sono uno scrittore, sono uno scritturato…” e così esprime la rivelazione è capire che all’inizio non ci sono io. Si dà veramente arte quando io divento il luogo, il teatro in cui si svela qualcosa di più grande di me. Anche i tre grandi delle religioni monoteiste – Gesù, Maometto, Mosè – dicevano di sé: io sono il figlio, io sono il profeta, io sono il legislatore, ritenendosi dei contenitori della manifestazione di Dio. Questo è il principio, poi si dà poiesis, poesia – da poieo, qualcosa che fa – e qui entra in gioco la soggettività, e ognuno esprime l’assoluto secondo la sua particolare sensibilità, capacità e tecnica. La dimensione attiva è quella creativa, ma questo non è che un secondo momento rispetto al primo dell’epifania, dell’aprirsi, del darsi rispetto a qualcosa di più grande.  

Anche la passione è un aprirsi, un atto di fiducia, un salto verso il vuoto, verso l’incerto.   

Sono d’accordo ma se non fosse così non ci sarebbe la fede.  

Ma al di là della scintilla iniziale, cioè come detto dallo slancio di fiducia, ci vuole poi una forza che prolunghi e sostenga questo agire. Parlando di fede: come si fa ad affermare “io credo”, senza avere delle certezze? Il salto lo posso fare all’inizio e decidere di aprirmi alla dimensione dell’assoluto, poi però la fede non riguarda un attimo solo, ma una vita intera. Dopo l’iniziale entusiasmo, che cosa dà la motivazione per continuare il cammino? E come si fa a non rimanere paralizzati dal dubbio di essere sulla strada corretta, della Verità?   

Più si sale verso il pater, più il dubbio aumenta. Bisogna però distinguere la sicurezza data dall’avere prove incontrovertibili – come si possono avere nelle discipline scientifiche, della mater – dalla validità esistenziale. Nella spiritualità non ci si basa su certezze a livello teoretico, ma sull’aver sperimentato una certezza esistenziale, di sentire di essere sulla strada giusta. Fino alla fine della vita si avrà a che fare col dubbio perché altrimenti non ci sarebbe fede. Ed è qui che la mente deve fare un salto, che si chiama fiducia. Più si ascende nel campo dello spirito e più si giunge ad una serenità interiore.  

Mi vien da dire che quindi è una sicurezza che si basa sul sentire più che sul sapere.

Esatto, il sapere viene trasceso, si capisce che esso non è l’ultima sigla mediante la quale l’uomo determina se stesso, c’è qualcosa di più importante di ciò che sappiamo, si tratta di qualcosa che riguarda ciò che siamo, il nostro essere, il nostro sapore, quello che sentiamo e come risuoniamo. Quindi, giunti a questo punto, viene meno il dubbio di chi non sa, non mi interessa più neanche il sapere, il dimostrare o l’essere certo, ma vado al di là di tutto questo perché c’è qualcosa di più.