SIAMO COME LEGNI STORTI FIN DALLA NOSTRA RADICE. ANIMALITÀ E INDIVIDUALISMO REGNANO SULL’UMANITÀ
Il testo è la prima parte della lectio a Torino Spiritualità, domenica 29 settembre 2024
Kant e il legno storto dell'umanità [PDF]
Kant non era il tipo che si usa definire ottimista nel senso usuale di chi è sempre felicemente pronto a dichiarare sorridendo “tutto andrà bene”. Nel 1784 riflettendo sulla storia scrisse: “Da un legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto”. Qualche anno dopo, nel 1792, scrisse un saggio sul male radicale intendendo con l’espressione “male radicale” quello che attiene alla nostra “radice” e sostenendo che la tendenza al male “è strettamente intrecciata con la natura umana”: vi è “radicata”. Nel saggio Per la pace perpetua del 1795 vi sono espressioni che ricordano il cupo pessimismo di Hobbes: “Lo stato di pace tra esseri umani che vivono l’uno accanto all’altro non è uno stato di natura, il quale è piuttosto uno stato di guerra”. E ancora: “I popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come individui che, nel loro stato di natura (cioè nella loro indipendenza da leggi esterne), si ledono l’un l’altro già solo per il fatto di essere vicini”. Nell’Antropologia del 1798 scrisse che “l’animalità resta sempre, nelle sue manifestazioni, anteriore e, in fondo, più potente della pura umanità”; e che “la volontà individuale è sempre pronta ad aprire le ostilità coi suoi vicini”. Aggiunge inoltre che “la follia ha una parte ancora maggiore della cattiveria nei tratti caratteristici della nostra specie”, per concludere che è proprio per questo che tutti noi diffidiamo gli uni degli altri: “Nella nostra razza tutti ritengono saggio stare in guardia e non scoprirsi interamente”. Ma come spiegare questa nostra oscura situazione? Perché siamo fatti così male?
Tra le diverse teorie elaborate lungo i secoli, le principali a disposizione di Kant erano le seguenti: a) la natura umana è strutturalmente votata al male; b) la natura umana è buona ma è irrimediabilmente decaduta a seguito del peccato dei progenitori trasmesso a ogni singolo al momento della generazione; c) la natura umana è buona ma viene corrotta dalla società.
La prima teoria, definibile pessimismo antropologico assoluto, ritiene che il male sia inestirpabile dalla natura umana e che quindi più si sta alla larga dagli esseri umani meglio è; non solo, essendo così malvagi, è anche bene che gli esseri umani siano liberi il meno possibile: da qui l’assolutismo politico sostenuto da Hobbes per garantire la sicurezza con la privazione della libertà individuale.
La seconda teoria, definibile pessimismo antropologico relativo, è rappresentata dal cristianesimo che mediante il dogma del peccato originale fa di ogni essere umano un peccatore; la liberazione da tale peccato è possibile solo tramite la grazia divina scaturita dal sacrificio della croce che arriva ai singoli con i sacramenti ecclesiastici.
La terza teoria, definibile ottimismo antropologico, individua la responsabilità del male nelle ingiustizie sociali e ritiene che, riformata la società all’insegna della giustizia, l’uomo riprenderà la bontà originaria: è il pensiero di Rousseau, ripreso in buona parte dal socialismo e dal comunismo, e che ai nostri giorni rivive nei movimenti ecologisti che professano un naturalismo radicale secondo cui quanto più stiamo alla larga dalla società umana, tanto più diventiamo migliori come esseri umani recuperando la bontà della nostra natura originaria.
Per Kant nessuna delle tre teorie è accettabile. Quanto alla prima, se egli stesso rileva che esiste in noi un’innata tendenza al male, questo non significa che siamo strutturalmente sempre portati al male, né tanto meno così perversi da risultarne desiderosi. Insomma, non siamo diavoli. Quanto alla spiegazione tramite il dogma del peccato originale, Kant la pensava così: “Qualunque possa essere l'origine del morale nell'uomo, non c'è dubbio che, fra tutti i modi di rappresentarci la sua diffusione e propagazione attraverso tutti i membri della nostra specie e nel corso di tutte le generazioni, il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dai primi progenitori”. Mentre il cristianesimo presuppone uno stato di perfezione originaria perché pensa il primo uomo come proveniente direttamente da Dio, Kant nega la perfezione originaria affermando che la natura umana contiene da sempre anche una tendenza alla malvagità, per cui non c’è una perfezione iniziale deturpata da un peccato sopraggiunto, ma piuttosto un caos originario rispetto a cui la manducazione del frutto proibito e la conseguente cacciata dal paradiso è da giudicare positivamente: “La sua uscita da questo paradiso non è altro che il suo passaggio dallo stato di bruto all’umanità… in una parola, dalla tutela della natura allo stato di libertà”.
Quanto alla terza teoria, per Kant la nostra malvagità, più che alle ingiustizie della società, va ricondotta alla fragilità della nostra stessa natura, a un’ignoranza strutturale di noi stessi riguardo a noi stessi, da lui descritta dicendo che in ognuno esiste “una certa perfidia del cuore che consiste nell’ingannare se stessi riguardo alle proprie buone o cattive intenzioni”. È da qui che procedono le ingiustizie sociali, non viceversa.
Ma se nessuna delle tre teorie è accettabile, come spiegare il male strutturale che ci contraddistingue a livello etico? Come Platone con i suoi dialoghi giovanili, anche Kant conclude in modo aporetico: “L’origine razionale di questa tendenza al male resta per noi impenetrabile… noi non siamo in grado di concepire il fondamento da cui si sia potuto originare in noi il male morale”.
Con esemplare lucidità il più grande filosofo moderno lascia aperta la questione che ancora oggi inquieta la nostra coscienza nella sua immensa drammaticità e che, proprio per tale aporeticità teoretica, richiede a ognuno di noi un’assunzione di responsabilità a livello pratico.
Vito Mancuso, La Stampa 29 settembre 2024