Chi si accontenta desidera

 

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Chi si accontenta desidera [PDF]

 

Che rapporto c’è tra essere contento e accontentarsi? Nell’accezione comune essere contento significa aver vinto; accontentarsi, invece, significa non aver vinto e accettare il risultato. Se ho vinto, sono contento; se non ho vinto, mi accontento. Di cosa? Di non aver perso, o di aver perso con onore. Dietro l’accontentarsi sembra quindi ci sia sempre una mancata vittoria, una non piena realizzazione del desiderio, che, non del tutto o per nulla contento, mestamente si accontenta. Questo è quanto rivela il linguaggio ordinario, ma le cose stanno veramente così? …

Sono celebri le parole che la regina malvagia rivolgeva allo specchio per ottenerne l’oracolo: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Ecco, anzitutto ci sono le brame: gli inquieti desideri che ci agitano come canne al vento, che non di rado non ci fanno dormire, che suscitano avidità, cupidigia, bramosia, che ci portano ad arraffare con le mani e con gli occhi, e che, quanto al loro contenuto, sono abbastanza prevedibili poiché indirizzati pressoché sempre alla seguente consacrata triade: ricchezza, piacere, potere. Ma cosa avviene a chi è in balìa delle brame? Avviene che ottiene una cosa o una carica o una persona ed è contento, ma, poco dopo, vede un’altra cosa, un’altra carica e un’altra persona e non è più contento di quello che ha, ma si sente assalire da un’inquietudine incontinente che, ben lungi dal farlo accontentare di quello che ha, inizia a fargli desiderare le novità che non ha. Ottenutele anche questa volta (comprate le scarpe di moda, avuta l’ennesima nuova relazione, acquisita una quota maggiore di visibilità), ecco comparire poco dopo altre novità che scalzano le precedenti e fanno nuovamente divampare la fiamma incontinente e consumante del desiderio. Si può passare tutta la vita così: mai accontentati, quindi mai realmente contenti. 

Il termine contento viene dal participio passato del verbo latino continere, che significa “contenere”, nel senso di “avere in sé”. Da qui anche il termine “contenuto”, che come sostantivo significa il messaggio, per esempio il contenuto di un film, e come aggettivo rimanda a uno stile moderato e sobrio, per esempio un piacere contenuto. L’etimologia ci insegna quindi che, esattamente al contrario del linguaggio ordinario, “contento” in realtà significa “accontentato”. Da qui la saggezza depositata nel noto proverbio dall’esperienza popolare: “Chi si accontenta gode”. Dicendo “gode”, il proverbio non rimanda all’esperienza effimera ed estemporanea del godimento che proviene dal piacere, ma a quella duratura e stabile del gaudio, cioè della gioia come permanente letizia. 

Il risultato complessivo dell’analisi fin qui condotta è quindi il seguente: ben lungi dall’essere il contrassegno della sconfitta, l’accontentarsi indica l’avvenuta vittoria nella partita più importante di tutte, quella contro se stessi. 

Ma ora occorre prestare la più grande attenzione, perché ho toccato un punto decisivo e delicatissimo, a proposito del quale vorrei essere il più chiaro possibile. Intendo dire che c’è un modo di lottare contro se stessi e contro il proprio desiderio che a mio avviso è del tutto negativo, direi patologico, e che quindi va evitato con cura. Mi riferisco a quella lotta che rispetto al proprio desidero ha come obiettivo l’estinzione, che intende sopprimere l’io e le sue passioni, e che tradizionalmente è detta “mortificazione”. Secondo questa visione accontentarsi significa rassegnarsi, mentre a mio avviso vi è una differenza decisiva tra chi è accontentato e chi è rassegnato. 

I desideri infatti non sono solo brame di cose o di persone, sono anche aspirazioni che ci spingono verso i più nobili ideali, quali giustizia, cura, conoscenza, verità, libertà. La tensione del desiderio che non si accontenta dello status quo può essere intesa come pericolo da evitare, ma può essere vissuta anche come sprone verso quanto ci innalza e come stimolo contro l’ingiustizia. Che cos’è l’amore per lo studio, per la ricerca, per l’impegno sociale, per la giustizia, se non appunto desiderio? E prima ancora, che cos’è in se stesso l’amore? L’amore è essere contenti di non accontentarsi, perché sempre un po’ fuori di sé e quindi esposti all’instabilità della relazione. 

Non solo. Ho sottolineato la grande differenza tra accontentarsi e rassegnarsi perché intendo affermare che, se e quando si comprende di essere in trappola, occorre sapersi ribellare, e, ben lungi dal rassegnarsi alla prigionia, iniziare a lottare conducendo la propria “guerra di indipendenza” o “di liberazione” personale.  

Dante fa dichiarare così a Brunetto Latini, il suo maestro di un tempo: “Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Inferno, XV, 55-56). Il carburante che ci consente di seguire la stella si chiama desiderio, ma è un carburante esplosivo che va trattato con saggezza, comprendendo soprattutto che si tratta di “seguire”, non di conquistare o dominare, ma al contempo di seguire la propria “stella”, non un ideale e una persona che poi si rivelano un buco nero. Le esperienze più decisive della vita sono quelle che avvengono al passivo, quando qualcosa più grande e più importante di noi ci afferra e ci conquista, ma questa conquista è buona se crea in noi attività e libertà, non se ci rende passivi e prigionieri. Ecco quindi il vero senso di accontentarsi: essere contenti di essere al servizio di qualcosa più grande di noi, di seguire la nostra stella, e non ogni nuova stella, trovando in questo seguire la nostra vera e profonda gioia di vivere.

Riassumo dicendo che vi sono a mio avviso tre possibili posizioni riguardo al nostro desiderio: incremento, estinzione, orientamento. La prima posizione consiste nell’incrementare il desiderio per avere sempre più desideri, quindi nel non accontentarsi di nulla, mai. La seconda consiste nell’estinguere la sorgente dei desideri fino a non averne più e quindi accontentarsi sempre di tutto, anche delle situazioni che si rivelano prigioni. La terza consiste nell’orientare i diversi desideri in modo coerente fino a ottenere un solo fondamentale desiderio, quindi ad accontentarsi nel senso più radicale di essere contenti, perché non più in balìa delle fiamme incontinenti dell’imperversare delle brame. L’accontentarsi, secondo quest’ultima saggia prospettiva, è la garanzia per la vera contentezza che proviene dalla stabilità di direzione del desiderio. 

Concludo con queste parole di Leopardi nel suo Zibaldone: “L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono per gli altri […] La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto”. Ciò di cui non ci dobbiamo mai accontentare è il lavoro interiore su noi stessi.

Vito Mancuso,  su Specchio domenica 18 giugno 2023