Filosofie della guerra

La guerra è sempre, la guerra è mai, l’espressione patologica dell’umanità

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Mi torna spesso in mente in questi giorni la risposta di Mordo Nahum a Primo Levi durante il loro ritorno da Auschwitz. Ebreo poliglotta di Salonicco denominato “il greco”, Mordo Nahum era uno di cui Levi afferma che “poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza così concreta”. Gli aveva spiegato che quando c’è la guerra bisogna pensare prima di tutto a due cose, alle scarpe e al cibo, ed esattamente in quest’ordine, perché senza scarpe non si può andare in giro a cercare cibo. Levi gli obiettò: “Ma la guerra è finita”. Replica del greco: “Guerra è sempre”. Fu prendendo sul serio quelle parole che Levi intitolò il suo libro “La tregua”, a sottolineare precisamente che “guerra è sempre”, quindi non si può dare pace, ma solo, per l’appunto, tregua …

L’assunto di Mordo Nahum rispecchia una precisa filosofia. È una visione complessiva del mondo, della natura, della storia, dell’umano e del divino, esplicitata per la prima volta in Occidente da un altro greco, il filosofo Eraclito, detto skoteinós cioè oscuro, che giunse invece a dichiarare nel modo più chiaro: “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re” (DK 22B53). Nello stesso periodo in Sicilia un altro filosofo, Empedocle, concepiva la realtà come dialettica di due forze originarie, l’Amicizia e la Contesa, sostenendo che quest’ultima “è causa della corruzione non meno che della realtà delle cose” (DK 31B37). In seguito molti altri pensatori, volendo comprendere l’essenza della realtà, colsero nella guerra un’espressione naturale e inevitabile dell’essere e del suo dispiegamento, sia come natura sia come storia, tra questi Machiavelli e Giordano Bruno. Per Hobbes non solo la politica mondiale ma anche la società civile è descrivibile come “guerra di tutti contro tutti” e per sentire la forza del suo punto di vista non c’è bisogno di pensare all’Ucraina, basta considerare un condominio, o anche una famiglia. Hegel, il cui idealismo non aveva nulla a che fare con il moralismo ma aveva la pretesa di essere fenomenologia, diceva della guerra che “mediante essa la salute etica dei popoli viene mantenuta”; e aggiungeva: “Come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia duratura, così la guerra preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua” (Filosofia del diritto, n. 324, con allusione polemica a Kant come vedremo). Marx e Nietzsche, padri nobili della sinistra e della destra, condividevano ognuno a modo loro questa filosofia della storia. Oggi essa è anche la visione della natura dominante in ambito scientifico, ecco per esempio le parole di Richard Dawkins, biologo evoluzionista: “Io penso che l’immagine di una natura «con i denti e gli artigli insanguinati» riassuma in modo mirabile la moderna concezione della selezione naturale” (Il gene egoista, p. 4). Quindi Putin chi è? Un fenomeno perfettamente naturale. Allo stesso modo lo sono gli ucraini che si difendono, l’Occidente che li arma, i cinesi che spalleggiano Putin, gli islamisti che si preparano a festeggiare le macerie cui Allah ha condannato l’Occidente e ogni altro attore della scena mondiale: tutti lupi famelici che divorano le prede indifese perché tale è la condizione sotto cui “tutti” siamo nati.
Sul fronte diametralmente opposto di “guerra è sempre” si colloca la filosofia secondo cui “guerra è mai”: è la visione del mondo oggi denominata pacifismo, altrettanto antica. A quanto ne so, il suo primo e più coerente sostenitore fu l’indiano Mahavira, il fondatore del jainismo, religione al cui centro c’è la non-violenza assoluta (ahimsa), disposizione che i jainisti osservano scrupolosamente non solo astenendosi da ogni tipo di guerra compresa quella difensiva, non solo non mangiando carne e pesce, ma astenendosi anche da patate, carote, cipolle e da ogni vegetale che sia tubero o radice e quindi potenzialmente generatore di vita. Anche il Buddha, contemporaneo di Mahavira e in buoni rapporti con la filosofia jaina, fece della non violenza assoluta un punto cardine condannando ogni forma di guerra, compresa quella difensiva. Tale impostazione sostiene “guerra è mai” non ovviamente nel senso che non vi sono guerre, ma nel senso che esse sono sempre e comunque un tradimento assoluto della vera logica a cui siamo chiamati che è la pace. Lo specifico di chi abbraccia questa visione del mondo è il fare della pace non solo il fine a cui tendere, ma anche il mezzo per ottenerlo, perché la pace si ottiene solo mediante la pace. È quindi negata nel modo più radicale legittimità etica a ogni forma di guerra, compresa quella difensiva. Le forze armate e le armi sono considerate di conseguenza strumenti di morte da abolire totalmente e quanto prima. È la posizione di don Milani, Aldo Capitini, Martin Luther King, Thich Naht Hanh, Gino Strada, padre Zanotelli.
Tra le due estremità vi è la terza posizione che considera la guerra una malattia, cioè un’espressione non fisiologica (come ritiene la posizione 1) ma patologica dell’umanità, la quale è “umana” esattamente perché in grado di evolvere rispetto alla mera logica naturale elaborando solidarietà, cultura, armonia. Chi, come me, si colloca in questa terza prospettiva si dispone di fronte alla guerra facendo di tutto per evitarne lo scoppio, tuttavia non esclude la liceità e persino la doverosità della guerra difensiva (come ritiene la posizione 2). Nell’antichità classica fu la posizione di Socrate, che amava la pace ma che partecipò quale oplita a tre campagne militari dell’esercito ateniese; dello stesso avviso furono Platone, Aristotele, Marco Aurelio. È anche la posizione maggioritaria del cristianesimo, rispecchiata dai due più grandi teologi cristiani di tutti i tempi, Agostino e Tommaso d’Aquino, e nel ‘900 da Emmanuel Mounier; e non a caso il Magistero cattolico ha sempre sostenuto la liceità etica della guerra difensiva (cfr. gli articoli 2263-2265 dell’attuale Catechismo). Per la teologia protestante si pensi a Karl Barth che appoggiò la resistenza armata dei cechi e a Dietrich Bonhoeffer che partecipò alla congiura dei servizi segreti militari contro Hitler. Per la filosofia moderna l’esponente più significativo di questa posizione è Kant. Egli aveva fortemente a cuore la pace, ne faceva lo scopo della sua filosofia politica prefigurando le condizioni future di pace tra gli Stati nel saggio del 1795 “Per la pace perpetua”. Kant però sapeva altresì che nel frattempo le guerre non per questo sarebbero cessate e che il compito dello Stato rimaneva quello di difendere anche militarmente i propri cittadini, come dimostra il suo elogio del militare nel paragrafo 28 della “Critica del giudizio”, nonché la settima tesi dello scritto “Idea di una storia universale”, testi a cui qui per limiti di spazio posso solo rimandare. Segnalo infine che questa terza prospettiva fu anche la posizione di Confucio, che parlava sempre con grande rispetto degli affari militari, e del libro sacro più importante dell’induismo, la Bhagavad gita, in cui il dio Krishna esorta il guerriero Arjuna alle prese con un conflitto di coscienza a compiere il suo dovere di guerriero.
Ragionando sull’ideale della società non-violenta, Norberto Bobbio prese le distanze dal pacifismo scrivendo che le democrazie già al loro interno si servono della forza per far rispettare la legge ma più ancora vivono “in un universo di stati di cui la maggior parte non sono democratici” e nel quale perciò la soluzione dei conflitti “è demandata sempre, in ultima istanza, alla forza”. E concludeva: “La politica interna è condizionata dalla politica estera e la politica estera è una politica la cui manifestazione ultima, e sino ad ora ineliminabile e non eliminata, è la guerra” (Etica e politica, pp. 1047-1048). Sono parole del 1982 che oggi trovano la loro più triste conferma.
Che cos’è quindi la guerra? La si può valutare in tre modi: come una struttura permanente e persino vitalizzante del fenomeno umano; come il male assoluto a cui opporsi sempre e comunque senza praticarlo mai in nessuna occasione e per questo smantellando gli eserciti; come un male dettato da avidità e sete di potere da cui ci si deve difendere, talora anche con le armi, ma avendo sempre come fine la pace. Guerra è sempre. Guerra è mai. Guerra è talora. Alla coscienza di ognuno il compito di riflettere e, quando occorre, prendere posizione. Ricordando sempre queste parole di Bobbio: “Siamo come viandanti in un labirinto. Agiamo come se ci fosse una via di uscita. Ma non sappiamo ancora dov’è”.

Vito Mancuso, La Stampa 17 marzo 2022