Riscoprire la virtù

L'urgenza di educarsi ed educare a essere migliori

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Intervista a Vito Mancuso DIDA 4-2020 [PDF]

Nel suo ultimo libro, La forza di essere migliori, Vito Mancuso va a riscoprire le quattro virtù cardinali nelle nostre radici culturali classiche e cristiane, offrendo una nuova prospettiva di senso per la nostra vita. «Viviamo secondo un modello di sviluppo che adora gli oggetti, non la lettura, la cultura, la partecipazione sociale e politica. Consumiamo, inquiniamo, ma così devastiamo noi stessi e il nostro pianeta. Essere migliori è diventato quindi un’urgenza, e il lavoro etico e spirituale una necessità non rimandabile». Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione che ne ha fatto presso la sede Erickson per esplorare alcune delle tantissime riflessioni ed emozioni che il suo libro suscita.

A ottobre è uscito il suo nuovo libro La forza di essere migliori. Qual è il senso del libro e perché ha sentito la necessità di scriverlo ora?

Il libro nasce in un momento di sconforto vissuto camminando per la mia città, Bologna. Un senso di sconforto rispetto alla società civile, all’Italia in particolare. Ho sentito l’urgenza di fare qualcosa e intervenire. In prima battuta, ho considerato l’idea di impegnarmi nel volontariato, ma ragionando ho capito che potevo offrire qualcosa di più peculiare. Allora ho organizzato, a titolo del tutto volontario, un laboratorio di etica a cui le persone potevano iscriversi pagando una cifra irrisoria. Inizialmente pensavo che avrebbe partecipato al massimo un centinaio di persone, poi invece siamo arrivati a quasi 400, e abbiamo dovuto chiudere le iscrizioni perché il numero di persone continuava ad aumentare. Dalle lezioni di questo laboratorio ha preso corpo questo libro, incentrato sulle virtù cardinali perché sono forze che riguardano ogni essere umano in quanto tale, che voglia essere giusto con se stesso e con gli altri.

La forza di essere migliori. Il titolo del suo libro racchiude tre parole: «forza», «essere» e «migliori». È sicuramente un titolo di impatto, che ben ricapitola in sé i temi affrontati. Ma ci dica perché ha scelto proprio questo titolo.

Direi, soprattutto, per comunicare nella maniera più chiara possibile il concetto di virtù. Si tratta, a mio avviso, di un termine piuttosto datato, che appartiene al secolo scorso, se non addirittura a due secoli fa. Tuttavia, credo che il concetto sia ancora oggi estremamente importante e non vada perso. Per questo, ho cercato un modo per tradurlo. Cosa significa essere «virtuosi»? Vuol dire essere «migliori» come essere umani e di questo parlo nel libro.

Ma allora c’è anche dell’ottimismo, insieme allo sconforto di cui parlava prima.

Sicuramente. Il libro è testimonianza non solo di uno sconforto, ma anche dell’ottimismo che provo verso le potenzialità dell’uomo. Io credo nell’uomo, noi abbiamo la capacità di migliorarci. C’è tutta la storia della civiltà e della cultura che ci sostiene. È per questo che nel libro guardo indietro andando a prendere i tesori del passato, perché abbiamo questa forza. Si tratta solo di crederci, volerla e recuperarla.

Nel libro lei individua dei «distributori di carburante», cioè delle fonti che alimentano la motivazione a essere etici: la tradizione, la religione, l’ideologia, la natura e la coscienza. Per ragioni diverse ridimensiona il peso dei primi quattro, concentrando la sua attenzione sulla coscienza. All’interno di questo quadro, come si situa l’educazione? Che ruolo può rivestire?

L’educazione è decisiva, più che mai. Il problema dell’etica è la forza motrice, l’osservanza. La gran parte degli esseri umani, nel 90% dei casi, sa se sta facendo bene o male, se sta dicendo la verità o sta mentendo, se è onesto con se stesso o meno, se sta lavorando con dedizione o sta barando. Il problema dell’etica, allora, non è teoretico, ma motivazionale, energetico. Da qui il valore dei distributori. Se io faccio delle cose perché le fanno gli altri o perché me lo chiedono altre persone (il parroco, il segretario del partito, il filosofo e, con una certa ambiguità, la natura), e dunque in una condizione di eteronomia, l’educazione entra in gioco in maniera molto relativa. Se invece è la coscienza che mi porta ad agire, tutto si gioca sull’educazione.

Lei parla della virtù come di una disposizione della posizione in cui la natura ci ha posizionato. In questo assetto, la posizione non dipende da noi, la disposizione sì. È allora possibile per i soggetti educativi insegnare questa disposizione? È possibile che sia un’istituzione come la scuola a insegnarla, o si rischia di cadere di nuovo nell’eteronomia di cui parlava prima?

Penso che sia possibile ed è quello che passa ogni giorno. Se ha ancora senso parlare di educazione, è in relazione a questo contesto. E oggi ne abbiamo davvero urgenza. Possiamo uscire dai mali dell’Italia solo tramite una grande impresa educativa, civile e morale. Abbiamo bisogno di educazione, ma non la insegna più nessuno. Ci si limita a istruire, ma tra istruire e educare c’è una differenza enorme. Vale ancora il discorso di Montale, per il quale la cultura è tutto quello che rimane una volta dimenticate le nozioni. Perché la cultura è un culto interiore, è la forma dell’anima. Lo stesso possiamo dire dell’educazione. Quindi sì, credo che sia possibile insegnare, e questo nasce innanzitutto dall’esempio. Esiste un’azione educativa diretta, dove si può ragionare sui valori, l’educazione civile, etica, politica, ecologica, ma quello che insegna, che lascia il segno dentro, è l’educazione indiretta: il modo in cui si ascolta, si parla, la puntualità, l’onesta intellettuale. Sono tutte cose che la gente e i bambini notano.

Lei giustamente parla di «insegnare» come di «lasciare il segno», e di «educare» come di «portare fuori». Ci sembra che questo si ricolleghi alla differenza che compie tra «esistere» e «vivere». Da qui la domanda: quanto è legato il fatto di esistere a quello di educare?

Esistere e educare sono verbi — io credo molto nella capacità rivelativa delle parole! — che suppongono un tirare fuori (existere: venire fuori, collocarsi fuori; educere: tirare fuori, con-durre fuori). Presuppongono una fede, una fiducia nel fatto che nell’essere umano ci sia effettivamente qualcosa da tirare fuori. Noi viviamo, ma esistere significa qualcosa di più. Significa vivere consapevolmente, e questo lo possiamo fare se veniamo fuori dalla struttura determinata in cui necessariamente il vivere, nascendo, ci ha collocati. Noi non siamo liberi all’inizio. Ha ragione chi nega la libertà dell’essere umano in prima battuta. Io credo nella libertà — altrimenti non avrebbe senso il discorso sulle virtù, sull’educazione —, ma la libertà va tirata fuori. E per tirarla fuori bisogna avere fede che ci sia. Anche in chi vedo schiavo dei propri istinti, della propria ignoranza, della propria indolenza, io devo credere che in quel bambino che ho di fronte, in quel carcerato, in mio figlio, ci sia un tesoro. E questo tesoro si chiama libertà consapevole. Il primo momento, allora, è la liberazione, perché il primo momento in cui la libertà si dispone è sempre uno strappo, un no, una lotta, una resistenza. L’educazione è innanzitutto liberazione. Ma come ho già detto, devo avere fede che ci sia qualcosa da liberare.

Ritornando al possibile ruolo della scuola e degli insegnanti, lei nel suo libro distingue tra conoscenza e sapienza. Oltre alla conoscenza, la scuola può insegnare la sapienza? E come?

La sapienza si può insegnare se la si ha. E se la si condivide. All’interno di una scuola pubblica quest’ultimo punto non è semplice, perché posso scontrarmi con il collega o con i genitori che la pensano in modo diverso e quando tento di offrire questa sapienza vengo visto come un pericolo. Quindi il grosso problema che abbiamo è avere una sapienza condivisa, e se ci siamo appiattiti sull’istruzione è perché è molto più semplice istruire che educare. Alla fine sull’istruzione siamo tutti d’accordo, perché le nozioni sono dei dati oggettivi sulla cui validità non serve discutere. Ma la disposizione, la forma che queste istruzioni devono avere, la maniera di utilizzarle, di domandare, di essere, tutto questo suppone un progetto umano. E se il progetto umano non è condiviso? Quindi noi italiani dovremmo metterci d’accordo. L’unica possibilità che vedo è ricorrere ai primi 54 articoli della Costituzione italiana, quindi ai principi fondamentali e alla parte iniziale sui valori civili e politici. Da qui, dalla carta costituzionale, dobbiamo tirare fuori un’antropologia, una figura di essere umano, e stabilire che la scuola deve educare a partire da questa figura di essere umano. Non dobbiamo limitarci a dare ai ragazzi delle informazioni. Dobbiamo formarli e lo possiamo fare solo se abbiamo dei valori condivisi. Secondo me quello che le forze politiche dovrebbero fare è una vera riforma della scuola, impostando un progetto educativo che si richiami ai valori della carta costituzionale.

Nel suo libro, lei si richiama spesso a culture e tradizioni diverse. In una società come la nostra, che è sempre più multiculturale e dove convivono tradizioni religiose differenti, secondo lei ha senso pensare all’insegnamento di un’etica condivisa e trasversale, piuttosto che una singola religione?All’insegnamento di un’etica condivisa e trasversale, piuttosto che una singola religione?

L’una non esclude l’altra, ma la risposta è un esplicito sì. Ne abbiamo un enorme bisogno e io parlo di educazione civica e morale. L’idea che si possa adempiere all’impresa educativa insegnando educazione civica è parziale, perché non siamo solamente cittadini. Prima ancora siamo esseri morali, e va educata quella solitudine profonda, quel senso di irriducibilità, di singolarità, di autocoscienza che vive in ciascuno di noi. Da questo punto di vista io sono convinto che noi dovremmo, per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia, deporre completamente la storia della filosofia. Che cosa si ottiene spiegando l’intero Platone, l’intero Aristotele o l’intero Spinoza ai ragazzi? Non ha più senso come impostazione. Noi invece dovremmo insegnare la filosofia per argomenti: ad esempio, il primo anno la natura, il secondo l’etica, il terzo anno lo Stato o il discorso sul metodo. Certamente l’etica deve essere insegnata direttamente e bisogna farlo alla luce delle differenti elaborazioni avanzate. Tenendo presente una cosa: riprendendo l’espressione di Hans Küng, esiste un Weltethos, un’etica mondiale e nel libro tengo moltissimo a specificare come non è vero che non esistono punti in comune tra le culture. Perché la regola d’oro, come documento abbondantemente, si ritrova in tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità.