La sfida è essere migliori e non i migliori

Il teologo e filosofo offre una visione ampia, diffusa, ecologica della mente, intesa come quella ragione che guida tutti i viventi e ne regola l’esistenza.

Articolo di Lucia De Ioanna su Repubblica Parma del 13 dicembre 2019

"So che si può vivere non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale".

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A partire da questi versi di Montale, Vito Mancuso, teologo e filosofo, ospite al Palazzo del Governatore per presentare la sua ultima opera, La forza di essere migliori (Garzanti), in un incontro promosso dalle biblioteche del Comune di Parma e l'assessorato alla Cultura nell’ambito della rassegna A Natale, un libro…, introduce la differenza radicale tra lasciarsi vivere, seguendo catene necessarie ed affezionandosi a quelle catene, ed esistere, assumendo su di sé il rischio della libertà …

Questa cruciale differenza apre la lezione magistrale del filosofo che, con la serissima semplicità di un bambino, interroga e smonta le parole nelle quali si depositano i nostri pensieri per restituircene un senso nuovo, autentico, capace di mettere in crisi le coscienze più assopite.
Il senso forte di “esistere” va cercato nella spinta a porsi fuori dalle catene del vivere in natura, guidati dal bisogno di nutrirsi e di riprodursi, per affacciarsi su una dimensione ulteriore e più profonda: esiste chi viene fuori dal vivere ordinario, dalla vita come prigionia, cattività.
La forza necessaria per diventare se stessi ed esistere autenticamente nasce dall’intuizione di una urgenza: la necessità, in un’epoca di offuscamento delle coscienze, di cambiare, cercando di essere migliori e non “i migliori”, tentando quindi di perfezionare la propria interiorità e non di superare gli altri in una tensione agonistica aggressiva.
Di fronte al folto pubblico che riempie l’auditorium, il filosofo avverte che le sue parole sono rivolte alla coscienza morale di chi ascolta, all’interiorità di ognuno, a “quell’energia libera, indeterminata grazie alla quale ognuno di noi è proprio se stesso”.
Il fuoco concettuale del libro e del dialogo è l’intuizione di come la coscienza, “il fenomeno più stupefacente prodotto dal nostro universo, debba oggi essere considerata in pericolo, proprio nel momento in cui ne abbiamo un bisogno urgentissimo. Senza morale, l’uomo soffre, è demoralizzato. Al contrario, se l’uomo, come singolo e nella vita collettiva, trova una coincidenza virtuosa tra etica pubblica e personale, conduce una vita felice. Credo che oggi, in Italia, la coscienza morale sia in pericolo.”
Ma che cos’è la coscienza? “Io ne parlo come dal basso, a partire dalle sue produzioni: se a un primo livello la coscienza si mostra come cognizione, come intelligenza, possiamo dire che non c’è vita che non sia intelligente. La mente, in questo senso, è più del cervello: molti esseri viventi, come le piante ad esempio, hanno una mente ma non un cervello.”
Una visione ampia, diffusa, ecologica della mente, intesa come quella ragione che guida tutti i viventi e ne regola l’esistenza. Quando, poi, un essere vivente riesce a riflettere, a flettersi su di sé in un movimento introspettivo nasce la consapevolezza: è il salto dell’autocoscienza, di un essere che osserva la propria interiorità. L’uomo, da solo di fronte alla propria interiorità, varca il confine di quella che per Duns Scoto era l’ultima solitudo: se come persone indossiamo sempre una maschera sociale, siamo nascosti dai tanti ruoli che rivestiamo e che ci rivestono, “nella nostra ultima solitudine, ci troviamo come individui, non più divisibili. Troviamo la parte più interiore che non è condivisibile con gli altri, se non in certi momenti intensi dell’amore.”
“La solitudine è la condizione per poter tornare in se stessi, dialogare con sé: è solo da questo dialogo che nasce il pensiero. Come ci ricorda Hannah Arendt, i regimi totalitari privavano gli individui della possibilità della solitudine senza la quale non si dà pensiero e neppure soggetto, se non un soggetto facilmente governabile.”
In questa stratigrafia dell’animo, Mancuso arriva al livello espresso dalla coscienza morale: “Il fondo della dimensione etica consiste nella regola d’oro che ti chiede di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Questa indicazione torna in tutte le culture.”
Va a caccia di queste corrispondenze, Mancuso: “Quando le trovo sono felice come se avessi trovato delle pepite”. Corrispondenze che rafforzano in lui la convinzione che l’etica non sia un insieme di precetti arbitrari che riceviamo in eredità e che vanno a formare un superego pronto a giudicare: “E' l’anima che nella sua estrema, ultima solitudine, giudica se stessa, valuta il bene e il male che fa e che riceve. Questo aspetto profondo dell’animo è confermato dall'esperienza universale di quando, la sera, l’uomo può chiudere gli occhi serenamente perché sente di avere la coscienza pulita.”
La forza per poter migliorare se stessi, per ritrovare una dimensione etica in una società che riconosce come valore solo il consumo e l’interesse personale, può venire da un confronto con le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) nel cui nome è scritta tanto la loro forza quanto la loro funzione orientativa, poli regolativi “di una bussola per la coscienza alle prese con il caos della libertà. Le virtù si chiamano così perché danno forza. La prima di queste virtù, la prudenza, io la chiamo ‘saggezza’, riattivando il suo senso antico e recuperando un termine che corrisponde al valore di questa virtù: si tratta della capacità di comprendere e di avere uno sguardo retto che si posa sulle persone e sulle situazioni. Questo il senso che si rivela anche attraverso la parola ‘giurisprudenza”.
Ma è possibile per gli uomini essere giusti? Mancuso, il cui pensiero ha spesso battuto strade divergenti rispetto a quelle canoniche, esprime un ottimismo etico che dà fiducia all’uomo: “Se per il cristianesimo l’uomo non può essere giusto ma solo giustificato, a causa del peccato originale, per l’ebraismo invece non esistono santi ma ci sono i giusti delle nazioni.”
All’arte si rivolge Mancuso, in chiusura dell’incontro, per dare corpo alla sua idea di una giustizia possibile e vitale anche tra gli uomini: “Se vi capiterà di andare a Padova, alla Cappella degli Scrovegni, vedrete che nei basamenti Giotto dipinge le sette virtù. Tutte sono in piedi, tranne una che è seduta ed ha la corona: quella virtù è la giustizia.”

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