L’odio, una stupida patologia

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Un sindaco dalla politica aperta e solidale viene accoltellato a morte nella città di Solidarnosc. Un terrorista criminale arriva in Italia e molti digrignano i denti che se solo potessero lo azzannerebbero fino a sbranarlo. Nelle curve degli stadi si sprecano inni razzisti e antisemiti. Alcuni ragazzi prendono un cane e gli fanno esplodere un petardo nella bocca. Sono solo alcuni esempi recenti di una passione distruttiva e assassina che pervade la nostra storia: Caino uccide Abele, Romolo uccide Remo, Eteocle e Polinice si uccidono a vicenda, Socrate viene ucciso dai democratici, Gesù viene ucciso dai teocratici e dagli imperiali, a Cicerone i sicari di Antonio mozzano le mani e la testa, e poi? Poi guerre a non finire, pulsioni ataviche di vendetta, esecuzioni capitali che radunano folle urlanti di piacere sadico, e non apro nemmeno il capitolo della storia del ’900 perché tutti sappiamo già quanto sangue e quanto odio contiene.

L’odio, appunto …

C’è poi anche la sua versione fredda, quella che corrisponde ai gironi infernali dove i dannati sono imprigionati nel ghiaccio, e che si esprime in quella voce maligna che, di fronte a una nave di esseri umani con la pelle di diverso colore che chiedono solo di poter sbarcare, sussurra gelidamente: che muoiano tutti affogati, o di fame, di freddo, che crepino!

La domanda a questo punto è semplice: che ruolo ha l’odio nella struttura del mondo?

E’ qualcosa di congenito, di strutturalmente presente, e quindi di naturale? Oppure è qualcosa di non congenito, di sopravvenuto, e quindi di innaturale? Cosa ha a che fare l’odio con la logica della vita nel mondo?

La mia risposta va controcorrente, è inattuale, è una sfida, perché sostiene che l’odio non è naturale ma è una patologia, e che quindi il suo dissolvimento, che possiamo anche chiamare perdono, è un ritorno alla fisiologia, cioè una guarigione.

Di che cosa l’odio costituisce una patologia? Di quella condizione strutturale che Eraclito chiamava polemos ed Empedocle neîkos. Secondo Eraclito “il conflitto (polemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re” (fr. 14, ed. Diano), affermazione cui va affiancata la consapevolezza complementare dell’armonia, quella secondo cui: “Ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (fr. 24).

Per Empedocle il mondo fisico e umano è retto da due forze contrastanti, da lui denominate philòtes e neîkos, cioè concordia e discordia, intesa e contesa, amicizia e astio. Ne viene che sia gli elementi naturali sia gli esseri umani “a volte per la concordia concorrono a un unico cosmo, a volte ciascuno va per conto suo trascinato dalla disfida dell’astio” (Poema fisico, 22).

Eraclito ed Empedocle furono i primi in occidente a portare alla coscienza la condizione antinomica e conflittuale che strutturalmente inerisce all’essere. Oggi la scienza conferma questa visione.

Nella natura vi è il conflitto, già a partire dalla condizione della materia. Gli astrofisici descrivono lo spazio in termini di “immani catastrofi che paiono l’ordinaria amministrazione di intere regioni del cosmo”. Sono parole di Guido Tonelli (“La Lettura”, 21 ottobre 2018), il quale scrive cosmo in corsivo per prendere le distanze dall’originario significato del termine greco (cosmo, cosmesi) e sottolineare invece il primato del caos nell’universo, descrivendo gli eventi dello spazio con termini quali “ruggire, sbranare, danza macabra”.

Se poi rivolgiamo la nostra attenzione alla storia della vita, le cose non cambiano, anzi diventano persino più conturbanti perché entra in scena il sangue, l’elemento della vita e al contempo della morte. Pensate all’espressione “fatto di sangue”: essa immediatamente ci richiama un crimine, e però indica al contempo la natura di ognuno di noi che siamo “fatti di sangue”.

Però attenzione: nelle stelle, nei quasar, nelle pulsar, nei buchi neri, così come negli esseri viventi che lottano per la vita e che si nutrono di vita altrui, non vi è odio. Il leone non odia la gazzella, così come la gazzella non odia l’erba; né sono capaci di odio i batteri, i virus, le cellule cancerogene e ogni altro ente naturale. Non vi è odio neppure in quei comportamenti animali che un professore di zoologia dell’Università di Padova, Giuseppe Fusco, descrive in termine di schiavismo riguardo a certe formiche, di fratricidio per molti rapaci, di matricidio per alcuni ragni, di uxoricidio per le mantidi, persino di violenza sessuale per certi insetti. Spiega lo studioso: “Questi comportamenti non sono in nessun caso da rubricare sotto l’etichetta di ‘comportamenti devianti’, perché per le specie animali che li praticano essi sono parte del loro normale ciclo vitale” (Competizione e cooperazione, in L’altruismo, Forum, Udine 2018, p. 37).

Nel mondo naturale non vi è odio perché in esso non vi è la condizione necessaria per l’odio, cioè l’evoluzione della mente, essendo l’odio proprio una patologia della mente, più precisamente una patologia di quel conflitto che inerisce strutturalmente all’essere. Un conto infatti è avversare, un altro è odiare.

La prima opera della letteratura occidentale, l’Iliade, insegna che si può anche cantare l’epopea vittoriosa di una guerra senza odiare il nemico; altrettanto avviene nell’ideale della cavalleria medievale. L’avversario è sì oggetto di avversione, ma non necessariamente di odio; il nemico è sì oggetto di inimicizia, ma non necessariamente di odio.

La differenza qual è? La differenza consiste nel fatto che il nemico e l’avversario li si vuole battere, vincere, sconfiggere, anche pesantemente, ma non annientare o annichilire. Anzi, se si riflette con ponderazione, si capisce che senza l’avversario, cioè senza l’adversus che rappresenta il polo opposto rispetto al nostro versus, la nostra stessa identità sarebbe completamente diversa o addirittura non sarebbe: come la sinistra senza la destra, gli atei senza i credenti, l’Inter senza la Juve.

L’odio invece vuole annientare. E nel suo furore accecante che lo rende ignorante, non comprende che l’annientamento del nemico comporterebbe il venir meno anche di se stessi, della propria identità, la quale senza il nemico non avrebbe più il polo in base a cui rafforzarsi e determinarsi.

Chi è capace di odio? Può odiare solo lo spirito, cioè la libertà.

Il termine spirito in latino (spiritus), in greco (pneuma) e in ebraico (ruah) significa anzitutto “vento”, “aria che si muove”, ed è stato prescelto dalle civiltà alla base della nostra tradizione per indicare precisamente la nostra capacità di libertà. La libertà non ci viene dal nostro essere corpo, né dall’essere psiche. E tuttavia, se la si ammette (intendendo con libertà la possibilità di consapevolezza, creatività e responsabilità), occorre individuare la condizione di possibilità che ci permette di essere liberi, la quale, se non è il corpo e se non è la psiche, richiede un altro nome. La tradizione ci consegna il termine spirito.

Ebbene, l’odio è una malattia dello spirito: non a caso la tradizione cristiana, ma anche ebraica e islamica, ritengono che Satana (che il Corano chiama Iblis) sia un angelo decaduto, e l’angelo è precisamente puro spirito. Quando la libertà si ammala, pone la consapevolezza e la creatività non più al servizio della responsabilità ma del suo contrario, cioè della negazione, dell’avversione, della distruzione. Si ha così la malignità, cioè la lucida volontà di male. Tale volontà maligna può essere indirizzata a una persona, a un gruppo, a un popolo, a un’istituzione, oppure può essere generalmente rivolta al mondo e condotta per il mero piacere del male, per il gusto sadico e perverso di infliggere sofferenza, distruzione, morte. La personificazione di questa forza è il cosiddetto Diavolo, la cui essenza è esattamente la divisione, la lacerazione, lo squartamento dell’essere: il contrario dell’armonia.

Normalmente non si pensa che l’odio sia una patologia, anzi lo si contrappone all’amore come forza di uguale e contrapposta potenza. Non solo, si ritiene anche che l’odio aiuti a comprendere molto meglio dell’amore, che abbia una sua invidiabile lucidità, una penetrazione intelligente e acuta. E’ vero che si dice “odio cieco”, ma ci si riferisce piuttosto alla rabbia, mentre l’odio nel suo gelido distacco viene inteso come freddo, lucido, penetrante. Ha detto un sopravvissuto ad Auschwitz, Sami Modiano: “Non è vero che l’odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna”.

Io non sottovaluto la forza dell’odio, ma contesto che sia veramente intelligente. Penso anzi che in realtà l’odio sappia vedere solo se stesso, non l’altro nella sua realtà effettiva; anche quando vede l’altro, vede in realtà solo il proprio pregiudizio, il quale gli impedirà di riconoscere il bene e il bello dell’altro ma lo confermerà infallibilmente che l’altro è solo male e deformità. L’odio vede, ma non vede con quello sguardo retto, disteso, che fa sì che l’occhio si posi sull’altro e lo colga per quello che veramente è; no, l’occhio vede con uno sguardo incurvato, deformato dall’energia negativa che lo anima, dal desiderio di distruzione che promana dal suo sguardo.

La vera comprensione richiede invece rettitudine, anzitutto nel senso di sguardo retto, di “retta visione”, come dice la prima disposizione dell’ottuplice sentiero insegnato dal Buddha. Da qui si genera apertura mentale e apertura del cuore, ovvero empatia, cioè “la capacità di esperire le emozioni altrui, di comprendere ciò che l’altro sta pensando o provando”, condizione che viene resa possibile solo quando una persona è in grado di “condividere lo stato affettivo di un altro individuo” (Franco Fabbro – Eric Pascoli, L’empatia e l’altruismo alla luce delle neuroscienze, in L’altruismo, cit., pp. 119-120), cioè ovviamente quando non odia.

L’odio quindi non è intelligente ma stupidamente circoscritto.

Rimane un’ultima questione: l’odio è forte? Certo, l’odio è forte, a volte fortissimo. Ma anche il cancro lo è, le cellule cancerogene possono essere molto più vitali delle cellule sane, sono affamatissime, violente, aggressive. Il risultato però qual è? La morte dell’organismo, e quindi anche la loro, cioè la massima impotenza. Questo si spiega in base al fatto che l’essere è retto dalla logica del sistema, cioè della relazione armoniosa, e che ciò che è conforme a tale logica fa fiorire la vita, mentre ciò che non lo è, la fa sfiorire introducendo morte. Platone scrive che persino “una banda di delinquenti o di ladri, o qualsiasi altra associazione che si formi allo scopo di delinquere” non potrebbe combinare nulla “se al suo interno si comportasse al di fuori di ogni principio di giustizia” (Repubblica, I, 351 D).

Non si tratta quindi di essere necessariamente buoni, nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta più semplicemente di essere intelligenti, di capire la logica che ci ha portato all’esistenza e ci mantiene in essa, e di conformarci (come un capitano di una barca a vela che capisce il gioco dei venti e delle correnti e dispone la sua barca di conseguenza). Per questo combattere l’odio al proprio interno, mantenendo il conflitto ma non odiando, significa rimanere sani, rigettare il male fuori di sé. Ancor prima che per benevolenza verso l’altro, non far attecchire le cellule cancerogene dell’odio è un grande gesto di cura verso se stessi.

Vito Mancuso, il Foglio 16 gennaio 2019

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