Educare vuol dire insegnare a pensare, porsi le grandi domande sul senso del nostro essere al mondo.
Intervista al prof. Vito Mancuso a cura di Maurizia Butturini e Chiara Tacconi
Intervista a Scuola dell'infazia Giunti [PDF]
La libertà, pensare, la solitudine, la ricerca spirituale… Sono questi alcuni dei temi della sua ricerca. Ritiene che possano entrare a far parte dei percorsi educativi, a cominciare dai bambini piccoli?
Possiamo “dare forma” (a noi stessi, ai bambini) se abbiamo un modello a cui ispirarci. Chi vogliamo formare? Qual è il modello di essere umano che abbiamo in mente? L'idea di scuola attualmente prevalente riflette il “clima culturale”, quello che Hegel chiamava “lo spirito del tempo”: siamo portati a pensarci come funzionali all'ingranaggio produttivo. Parliamo di istruzione e non di educazione (infatti abbiamo un Ministero dell’Istruzione) perché ci pensiamo come homo faber, come diceva il filosofo Herbert Marcuse: un uomo schiacciato su un’unica dimensione, la produttività; tutto deve essere utile, deve servire, deve essere funzionale…
Quali sono invece i suoi punti di riferimento?
Io appartengo alla visione classica, prima che cristiana: quella di Eraclito, Socrate, Platone, Aristotele, gli Stoici, Epicuro… Se siamo sapiens solo perché sappiamo fare le cose, se abbiamo un sapere solo fatto di nozioni, allora torniamo indietro, siamo faber. Sapere ed avere sapore derivano dallo stesso verbo, e possiamo dare sapore se sappiamo parlare all'anima, alla coscienza, al sè… Se riusciamo a coltivare questa dimensione, allora riusciamo a dare questa atmosfera ai bambini, fin da piccoli. Se non ci crediamo, è inutile parlare di silenzio, di pensiero… e infatti c’è chi mette in dubbio la presenza nella scuola della filosofia, della storia dell’arte, della religione. In questo modo però perdiamo le nostre radici classiche, dimentichiamo che i nostri padri tenevano alla supremazia dell’otium rispetto al negotium (non-ozio), perché sapevano che esiste qualcosa di più importante del produrre.
Alla base del modo in cui insegnamo, c’è il nostro rapporto con la Natura. Se la consideriamo un recipiente da cui estrarre risorse, restiamo nella dimensione del consumo; se invece la riteniamo la sorgente da cui veniamo (e non si tratta di credere in Dio), che ha in sé la vita e la vita capace di amore, nonostante i lutti e le sciagure, la scuola ci può introdurre a questo mistero che ci contiene e che ci rende migliori come cittadini. Non ci sentiremo lupi rapaci fra lupi, ma cittadini del mondo prima che lavoratori. Questa è la grande intuizione che, secondo me, la scuola dovrebbe avere.
E dunque come avvicinare i bambini alla filosofia?
Per la mia esperienza la filosofia è un metodo, una maniera di disporre lo sguardo, la mente, il cuore. Non intendo certo discutere o disprezzare la dimensione tecnica o produttiva: sono figlio di un artigiano e so che cosa vuol dire guadagnarsi il pane con il lavoro. Ma la dimensione umana contiene la capacità di porre domande sul senso del lavorare, consumare, divertirsi e in ultimo del vivere. Per qualcuno queste domande sono una seccatura, ma per la nostra tradizione sono il sale dell’essere al mondo. La filosofia è porre domande, ma l’importante è il modo con cui si pongono. Dovremmo educare i bambini fin da piccoli all’onestà intellettuale, a non avere nemici ma avversari. I Dialoghi di Platone ce lo dimostrano: la filosofia coltiva l’arte della guerra delle idee abbattendo l’odio tra posizioni diverse; insegna a riconoscere i propri errori, a saper dire “Hai ragione”. La filosofia è un atto del vedere, prima ancora che del dialogo, è imparare a posare lo sguardo in modo retto e quindi corretto su cose, persone ed idee. Il vero filosofo è colui che sempre si stupisce, è gentile, accogliente, grato nei confronti di pensieri e teorie.
Che cosa suggerire agli insegnanti per riuscire a fare questo dono ai bambini: imparare a pensare e non solo a conoscere?
Fare esperienze di meditazione, di vita contemplativa, di silenzio. Per avere un’anima grande (Gandhi era chiamato “Mahatma”, “grande anima”) invece che dominata dall’angoscia, parola che vuole dire proprio “anima stretta”. E come si fa ad allargare l’anima? Con esercizi spirituali, in forma cristiana, o buddista, o non religiosa, nella consapevolezza che la calma interiore è una grande forza da trasmettere ai bambini e ai ragazzi, forse più importante delle nozioni che oggi si possono raccogliere in tanti, troppi modi. Se l’insegnante sa dare forma a se stesso, alle cose, allora sa formare i ragazzi. Mi rendo conto che tutto suppone una determinata visione. Mio padre diceva “chi nasce tondo non può morire quadrato” e tuttavia ci sono persone che si trasformano, acquistano spessore e sapore: esiste in noi qualcosa che non è determinato dal corpo e dal carattere. Io lo chiamo classicamente spirito ma ciascuno può chiamarlo come vuole… Non è questione di credere in maniera dogmatica ma di come senti la vita e te stesso. Quando ti senti più vivo, mentre compri le scarpe o quando leggi, suoni, dipingi?