I cinque anni di pontificato di Papa Francesco

 «Un profeta straordinario che fatica a tradurre in atti di governo il suo messaggio all’insegna del Vangelo; rischia di essere una cometa»

 

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Intervista a cura di Giovanni Panettiere, Quotidiano.net [Link]

Bologna, 13 marzo 2018 – Non basta una spinta profetica "dirompente, oltre i vertici di Giovanni XXIII e del miglior Giovanni Paolo II". Per scongiurare che il papato di Bergoglio "sia ricordato solo come una cometa  nella storia della Chiesa", é bene che il gesuita Francesco riveda la sua azione di governo, "senza bacchettare di continuo il suo esercito, dai cardinali ai parroci, perché sono loro che hanno il compito di attuare le riforme". A questo va aggiunto un rafforzamento della dimensione liturgica/contemplativa sulla quale “l’apporto di Benedetto XVI è stato nettamente superiore". É una fotografia nitida, a tutto tondo dei primi cinque anni del pontificato argentino quella scattata da Vito Mancuso, fra le voci più conosciute e innovative della teologia contemporanea, cresciuto alla scuola del cardinale Carlo Maria Martini. L'autore di saggi popolarissimi, da 'L'anima e il suo destino' a 'Io e Dio', si smarca dallo schema riduttivo bergogliani/ratzingeriani per inquadrare luci e ombre di un papato che continua a far discutere.

Professore, niente lode per papa Francesco?

“Complessivamente allo stato attuale direi di no. Detto ciò, facevo già fatica a dare i voti agli studenti, quando insegnavo all’università, figurarsi se mi metto a giudicare un pontificato così importante e comunque straordinario. Non mi sento all’altezza. Preferisco piuttosto fornire qualche impressione su questi primi cinque anni dell’era Bergoglio, seguendo il criterio dei ‘tria munera Ecclesiae’, in altri termini dei tre compiti della Chiesa: profezia, governo e santificazione”…

Andiamo con ordine, partiamo dal primo.

“Dal punto di vista del ministero della parola, vuoi per la novità, l’incisività o la continuità dei suoi interventi, Francesco è superiore anche al Giovanni XIII dell’enciclica ‘Pacem in terris’ e al Giovanni Paolo II che si oppose strenuamente alla guerra in Iraq. Non lo dico tanto io, lo si coglie dalla grande popolarità che riscuote nel pianeta”.

Quale può essere considerato l’apice del Bergoglio-profeta?

“Senza dimenticare la sua denuncia della corruzione e delle ingiustizie sociali, il suo opporsi a un’economia fine a se stessa, ritengo che in duemila anni di storia della Chiesa non vi sia mai stata un’enciclica così potente come la ‘Laudato sì’. Coglie in modo esemplare il problema principale del nostro tempo, la questione dell’ambiente, troppo spesso snobbata e ridimensionata a tema secondario”.

Dove sta allora la fragilità di questo pontificato?

“Il compito del Papa in generale, non solo di Francesco quindi, non si esaurisce nel parlare al mondo. È anche quello di governare la Chiesa. Intendo dire che il nodo centrale del pontificato di Bergoglio sta nel fatto che la sua grande azione personale a livello profetico non trova un’adeguata traduzione sul piano strutturale, nei documenti, nelle istituzioni, nelle menti e nelle anime degli uomini di Chiesa”.

Mette il dito nella piaga di un esercito che è tutto tranne che coeso dietro il suo comandante?

“La metafora militare non piacerà molto a un pacifista come il Papa”.

È pur vero che lui è un gesuita, Ignazio di Loyola era un ufficiale e nella Compagnia di Gesù sono usi adottare anche un linguaggio militare.

“Continuando con la metafora, nel nostro caso abbiamo un generale che da alcuni soldati, cardinali, vescovi, preti o diaconi che siano, è amatissimo, da altri snobbato, mentre da molti è fortemente detestato. Questo costituisce un problema enorme”.

Colpa del comandante, che non sa guidare le truppe, o di un esercito disabituato a un messaggio così profetico?

“Entrambi gli aspetti. È vero, però, che i soldati vanno anche motivati. Per questo dico di essere rimasto sfavorevolmente colpito dal discorso di auguri alla Curia che il Papa ha tenuto a dicembre, in prossimità del Natale. Per l’ennesima volta ha fustigato il personale dei dicasteri vaticani. Questo può andare bene nei primi due anni di pontificato, non al quarto. Ciò dimostra come Bergoglio non sia stato in grado di riformare la Curia. Visto che non è vescovo di Roma da ieri, a questo punto i vertici gli ha nominati o confermati lui, non qualcun altro”.

Che effetto ingenerano nel popolo di Dio queste continue reprimende al clero?

“Alimentano una pericolosa sfiducia nella Chiesa istituzionale. I fedeli finiscono per considerare bravissimo il Papa e pessimi i cardinali, i vescovi e tutti gli altri. Eppure chi incontrano ogni giorno non è il Papa, ma questi funzionari di Cristo che tra l’altro hanno il mandato di attuare le riforme”.

Un Bergoglio eccezionale nel kerygma, cioè nell’annuncio del Vangelo, ma allo stesso tempo debole nel governo della Chiesa, insomma.

“Anche dal punto di vista del munus sacerdotale mi sembra che manchi un invito chiaro, potente ai preti a riscoprire la preghiera, il silenzio, la dimensione contemplativa. Tutti elementi che non sono complementari, ma piuttosto qualificanti il presbiterato. Senz’altro l’apporto di Benedetto XVI, nel campo dell’attenzione liturgica, alla musica sacra, più in generale, al mistero della fede è stato superiore. Il leit motiv, invece, di Francesco si gioca nell’aiuto ai poveri, nell’apertura ai migranti, in sintesi nella caritá. Ci mancherebbe, sono tutti input necessari, doverosi. Tuttavia non può esserci solo questo”.

Chiudendo sulle riforme, fra i tanti cantieri aperti da Bergoglio in questi cinque anni quale auspica sia chiuso quanto prima con successo?

“Diciamoci la verità, la riforma della Curia romana é più un tema da addetti ai lavori, per il popolo di Dio cambia poco. La vera urgenza credo sia la questione femminile”.

Francesco ha istituito una commissione di studio sulle diaconesse. Forse si arriverà a creare un nuovo ministero istituito, come tale fuori dall’ordine sacro. Una delusione?

“A Milano c’è un detto che recita: ‘Piutost che nient l’è mei piutost’. Come dire, non sarebbe certo il massimo, ma il fatto di entrare in chiesa e trovare una donna che predica o presiede una messa ‘secca’, con la consacrazione già avvenuta, credo sia un passo avanti importante, non scontato. Anche tenendo conto di una struttura ecclesiale dove l’episcopato polacco o quell’africano, per esempio, potrebbero avere qualche difficoltà a recepire anche solo una riforma simile”.