Il peccato nella Chiesa di Francesco

Scalfari-papa-francescoNell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice «rivoluzionario » e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava pecca fortiter sed crede fortius (pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino, convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, una situazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt…

L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).

Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina cattolica risponde mediante il dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».

Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quantosostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo, ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto sorgere. Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima parte del Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia, così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel 1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale.

Vito Mancuso “la Repubblica” 3 gennaio 2014