PAROLE IN LIBERTA’ TRA VITO MANCUSO E MARIO DE MAIO
CONTEMPLANDO IL TRAMONTO A MONTESENARIO
(da Oreundici – Quaderno settembre 2012)
Il filosofo che pensa è come il pendolo che oscilla da un’estremità all’altra, coinvolgendo nel pensiero-movimento tutto se stesso. Si muove nella tensione continua verso la mediazione, il giusto cammino, il percorso lineare che si trova proprio a metà tra l’uno e l’altro estremo, che continuamente attraggono e respingono. Ascoltare e seguire il pensiero di un filosofo coinvolge in questo movimento, che scopri omogeneo anche quando disegna traiettorie divergenti, apparentemente disgiunte, che mai smettono di oscillare e mai cessano di cercare il centro.
Vito Mancuso lo sottolinea ripetutamente, il movimento e la ricerca del centro, nel suo tentativo di delineare il cammino spirituale dell’uomo moderno, come emerge dal dialogo “parole in libertà” con don Mario avvenuto una domenica di agosto, nella cornice di Montesenario, per questo quaderno.
Tu, come vedi Ore undici? Come la percepisci?
Noi oscilliamo tra il tentativo di forzare le situazioni e la passività che porta a subire le situazioni senza fare nulla. Ciò che va cercato è il punto di equilibrio tra queste due forze e Ore undici è un posto dove le parole tentano di diventare “parola”, non chiacchiere, non elucubrazioni, ma messaggio responsabile e responsabilizzante.
Ti ringrazio perché lo sforzo che cerchiamo di fare è proprio quello di permettere alle persone di trovare parola. Parola in senso ampio, compresi i “non detti” e tutte le altre forme di linguaggio che vengono dalla sofferenza, dalle somatizzazioni, dalle perplessità. Anche i nostri errori sono linguaggio. Ore undici accoglie tutto, nel senso che offre uno spazio per ascoltarsi e ascoltare la parola che viene dal profondo, ciò che la persona si porta dentro. Permette di incontrare il proprio nulla, per usare le parole di Arturo Paoli, e da lì partire per costruire la propria esistenza.
La pazienza del nulla e l’esperienza dell’essere, il silenzio e la parola: noi siamo un ponte tra queste due cose. Tutto il pensiero umano si può forse racchiudere tra queste due polarità e ci possiamo domandare: il principio è il nulla o l’essere? Ma qui andremmo in un discorso lungo e complicato che ora non interessa.
C’è un terzo elemento, che è la consapevolezza: tutti esistiamo, ma chi vive veramente? Come passare dall’esistere al vivere?
Naturalmente la vita spirituale richiede consapevolezza, ovvero la “presenza mentale” per dirla nel linguaggio buddista, senza la quale non c’è vita umana. La presenza mentale altro non è che la visione profonda delle cose: per recuperare questa dimensione non dobbiamo necessariamente attingere alla sapienza orientale, perché se ci pensi il termine “idea” – che appartiene alla cultura occidentale – deriva dal termine greco “vedere”. La vera capacità diavere delle idee, quelle idee che possono trasformare la realtà, dipende dalla capacità di vedere. Idea è visione. Che cos’è il contatto con la natura se non un’impressione che diventa idea? L’essere totalmente aperti a questa patria dentro cui siamo, ci muoviamo, respiriamo (per citare Atti 17,28), e fare in modo che la luce della natura scriva dentro di noi, come una pellicola fotografica: e qual è questa visione che si imprime dentro di noi? È la capacità di vedere il mondo, sono le idee nel senso supremo del termine, la capacità di rimanere impressionati dalla luce e riprodurre bellezza e armonia. Non solo, perché noi siamo anche in grado di lavorare, di agire, di trasformare le cose, i rapporti, noi stessi, la terra.
Guardando la realtà sociale in cui viviamo, vediamo segni di “fallimento” e gente delusa che forse non ha incontrato la vera spiritualità di Cristo.
Il fallimento non riguarda solo la religione, dobbiamo prendere atto che c’è una bancarotta più ampia: fallisce la proposta complessiva dell’occidente, che a partire dall’Illuminismo è stata rappresentata attraverso l’ideologia politica e scientifica, dall’unione di scienza e politica che avrebbe voluto rimpiazzare l’antica spiritualità.
Le città in cui viviamo rivelano quanto la civiltà occidentale sia malata. Basta osservare il modo in cui gli uomini camminano, l’incapacità di muoversi con calma e con distensione, tutta l’ansia che gli esseri umani sprigionano rivela il dolore che portano dentro. Come risolvere il problema del dolore del vivere? Già Pascal aveva individuato e descritto la risposta: il divertissement, la grande industria dell’evasione, del viaggio, del cinema, dell’emozione, finalizzata ad uscire fuori di sé per dimenticare, per non stare con se stessi. Naturalmente tutto questo non fa diminuire, anzi produce maggiore ansia, dolore, sofferenza, aggressività.
Il cristianesimo può dire ancora qualcosa all’uomo di oggi?
Non ho la sfera di cristallo con cui ergermi al di sopra dell’umanità, ma posso parlare di me che sono un uomo di oggi. Posso dire che il silenzio, il contatto con la natura, l’incontrare amici per me è terapeutico. Io ho bisogno di questo. Non penso di essere diverso dagli uomini che soffrono, che camminano portando ansia, anch’io sono malato e quindi posso pensare che quello che serve a me forse serve anche agli altri. La mia esperienza è questa: quando mi trovo in luoghi di autenticità, di pace, di capacità di silenzio, dove nessuno esige prestazioni, ma semplicemente accoglienza per cui ciascuno è se stesso, insieme si può camminare verso qualcosa di più importante. Non è questa la proposta della vita spirituale?
Tu stai parlando di una malattia che è molto diffusa e di possibili terapie. Io penso che in ogni terapia ci sia bisogno di almeno una persona che creda in te, se non hai una persona che ha fiducia in te, la tua vita si affloscia, perde senso. Qui recupererei qualcosa del valore terapeutico del cristianesimo: quando Gesù parla di amare, non parla di essere altruisti, dice che ogni persona ha bisogno di una persona che la ama e che lei ami. La terapia dobbiamo cercarla nell’area della relazione.
Sono d’accordo. Vorrei aggiungere una osservazione e cioè che dobbiamo distinguere il dolore dalla sofferenza. È giusto lottare contro il dolore, la dimensione del dolore è un peso che dobbiamo cercare in ogni modo di alleviare, però esiste anche una dimensione di sofferenza nel vivere che non sarà mai possibile superare. Se nell’esistenza dovessimo raggiungere un punto senza sofferenza, probabilmente arriveremmo o ad una dimensione inautentica rispetto a noi stessi, oppure ad una dimensione egoista, perché non si può guardare il mondo e non vederlo carico di sofferenza, a partire dalla natura, dall’evoluzione, dalla storia.
E poi c’è lo specifico umano. La vita dell’uomo ha tutta l’area del pensiero e della consapevolezza che non è presente nelle altre forme viventi. Tu vedi questa salvia: nessuno chiede alla salvia di essere origano. Spesso la sofferenza nell’uomo nasce dal fatto che non può vivere la sua identità profonda. Il sistema di educazione porta la persona a dover essere quello che l’altro desidera.
Tu parli della sofferenza psichica, che può essere superata, si può superare. Ogni persona ha il suo itinerario, ma può giungere a essere conciliata con se stessa, può giungere ad essere felice di essere quello che è, senza alcuna proiezione o invidia fuori di sé. “Parva sed apta mihi” (piccola ma adatta a me) diceva Ludovico Ariosto della sua casa, e ognuno può giungere a dire lo stesso della sua condizione. Lo stesso concetto è veicolato dal salmo 130 quando dice non cerco cose grandi, sono tranquillo come bimbo svezzato in braccio alla madre, parole che esprimono la vittoria sulla sofferenza psichica.
Ma accanto a questa forma di sofferenza psichica, esiste una dimensione di sofferenza spirituale, la consapevolezza del dolore del mondo, degli altri esseri umani. Anche quando ci troviamo immersi nel silenzio e nella natura, non possiamo dimenticare che le nostre città sono grida di dolore, cariche di sofferenze sopite, ingiustizie, angherie, violenze… è lecito coltivare un benessere che non vede queste cose? Il messaggio cristiano della passione non è dolorismo, non è la volontà di soffrire fine a se stessa, ma è la capacità di vedere il dolore del mondo, sentirlo dentro di sé e giungere a compatire.
Puoi dire qualcosa in più riguardo allo specifico cristiano di fronte alla sofferenza?
Il credente in Cristo è colui che compie questo percorso, giunge alla consapevolezza della sofferenza, dopo di che ciascuno deve capire che cosa può fare, ma in estrema sintesi la risposta è sempre la stessa: immettere energia positiva.
Ma questa visione non si avvicina al panteismo?
Non c’è nessuno che non sia toccato, almeno un po’, dalla verità del divino e che non giunga a sentire la potenza, il fascino, la bellezza del pan-teismo, ovvero dalla presenza di Dio in tutto e in tutti, che secondo la Prima lettera ai Corinzi è esattamente la meta verso cui cammina la creazione. Dopo di che io non sono panteista, poiché se è vero che Dio è presente in tutte le cose, c’è anche la realtà delle cose che non sono come dovrebbero essere, perché la realtà non è ancora compiuta. Il concetto vero del panteismo è espresso da Spinoza: la realtà e la perfezione sono la medesima cosa, ovvero il regno di Dio e questo mondo sono la medesima cosa. Personalmente sono del tutto consapevole che la realtà e la perfezione non sono la stessa cosa, ma penso anche che sostenere che questa realtà non abbia a che fare con Dio, faccia cadere nell’estremo opposto rispetto al panteismo che è lo gnosticismo, l’estrema separazione tra Dio e il mondo, affidato puramente alle mani del caso, dell’assurdo, del non senso. Tra questi due poli situo quel modello di pensiero che chiamo “pan-en-teismo”: tutte le cose sono in Dio, ma la somma di tutte le cose non è la divinità.
Il tuo pensiero suscita spesso critiche e commenti: qualcuno sostiene che vai cercando condanne, tu come rispondi?
Semplicemente ricerco, penso come sono capace di fare, espongo i risultati provvisori delle mie ricerche nei libri che scrivo, non cerco applausi né condanne, cerco di servire la verità come la comprendo e la vivo. Non ho intenzionalità politica, non mi relaziono alla struttura del potere, cerco di parlare alla coscienza individuale, la mia innanzitutto e poi quella di chi mi vuole leggere.
Anche se non sei un uomo delle istituzioni, certamente ti poni in relazioni ad esse che sono necessarie in ogni ambito dell’agire e dell’essere.
Sono d’accordo sull’importanza delle istituzioni, nel libro con Augias (Disputa su Dio e dintorni, Mondadori 2009) ci sono molte affermazioni sull’importanza delle istituzioni e della Chiesa istituzionale in particolare.
Quello che voglio dire è che certamente vivo all’interno di istituzioni, ma non sono uno di quegli uomini che hanno assunto come modalità di vivere, di pensare, di esistere, quella di rappresentare l’istituzione e il potere che ne scaturisce. Nelle comunità umane esistono sacerdoti, profeti, sapienti, re, giudici, per riprendere le categorie bibliche; io non sono un sacerdote né un giudice, forse mi potrei collocare tra i profeti e i sapienti, categorie che hanno un rapporto abbastanza conflittuale con le istituzioni.
Tu esprimi un forte riferimento verso queste istituzioni, ma anche un atteggiamento molto critico, che ne tocca i fondamenti costituiti dal sistema dogmatico.
Penso che la Chiesa, a partire dal concilio di Trento, come si è voluta strutturare, come ha pensato se stessa, è finita. Non ha più nessuna possibilità di fascino spirituale sugli uomini di oggi. Questo non significa che sia finita la Chiesa cristiana, ma dobbiamo prendere atto che può sopravvivere solo se crea un nuova modalità di essere comunione.
Paolo Ricca parla di una Chiesa trasversale che non si configura come istituzione strutturata.
Ma che cos’è la Chiesa nel suo senso più vero se non la comunità dei santi? Quando incontriamo una persona giusta, che ama il bene, non sentiamo forse una profonda unità con lei, e questo non è forse il mistero ecclesiale nel senso vero del termine? Esiste una comunione dei santi che va al di là del tempo, delle categorie, dello spazio. O la Chiesa comprende che deve decentrarsi in favore di questa chiesa invisibile, comunione dei santi, e così facendo tornerà ad avere fascino e sapore, oppure se continua a pensare e a pensarsi in funzione di se stessa e del proprio tornaconto, è destinata ad essere come il sale che perde il sapore e non serve ad altro che essere gettato via.