La vera libertà si ottiene seguendo la legge

L'intervento che Vito ha tenuto mercoledì 26 settembre all'apertura dell'ottava edizione di Torino Spiritualità 2012

Vorrei iniziare ricordando l'amico carissimo che, nel progetto originario per questo incontro, avrebbe dovuto essere qui questa sera a parlare della misteriosa "legge di libertà", Lucio Dalla. Una delle sue canzoni più note, Piazza grande, è un vero e proprio inno alla libertà, quando per esempio dice "a modo mio avrei bisogno di carezze anch'io, avrei bisogno di pregare Dio, ma la mia vita non la cambierò, mai, mai, a modo mio quello che sono l'ho voluto io". 
A ben vedere penso che si potrebbe riassumere tutto il senso della vita spirituale nella sottile dialettica tra un'originaria fedeltà a se stessi per non essere la fotocopia di nessuno, e un altrettanto necessario superamento di se stessi, per evadere dalla prigionia dell'io verso la visione autentica del reale. Essere se stessi, tutelando la propria libertà originaria, ed insieme riformare se stessi servendo la legge del reale: è nella complicata dialettica tra questi poli che, a mio avviso, si inerpica il sentiero alpino della vita spirituale.
Il 4 marzo in San Petronio a Bologna venne celebrato il funerale di Lucio. Io ero sull'altare perché mi era stata affidata la prima lettura, e da lì in alto mi capitava di vedere Alessandro, a due passi da mia moglie e i miei figli. È bello quindi che oggi sia qui lui, anche perché vi sono molte analogie tra Lucio e Alessandro: la stessa città, l'amore per la libertà, la cura del linguaggio, la creatività artistica, una punta di follia e di caos, la capacità di ridere e di far ridere, l'attrazione per la dimensione spirituale. Anche per questo sono felice, in questa sera iniziata nel ricordo di Lucio, di essere accanto a lui.

L'origine dell'espressione: la Lettera di Giacomo 

"Secondo legge di libertà" è un'espressione della Lettera di Giacomo, scritto del NT in cui al versetto 2,12 si legge: "Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà" (testo greco: dià nómou eleutherías). La Lettera di Giacomo è uno scritto dal sapore molto diverso rispetto alla gran parte del NT, dominata da Paolo e da Giovanni. L'autore non è uno qualunque, sappiamo da san Paolo che era tòn adelphòn toû kupíou, "il fratello del Signore" (cf. Galati 1,19). Naturalmente su come intendere il termine "fratello" (fratello carnale o cugino?) la discussione non è ancora chiusa e non lo sarà mai: da un lato la filologia depone a favore della prima ipotesi visto che il greco del NT ha un termine specifico per cugino (anepsiòs, cf. Colossesi 4,10), dall'altro la forza della tradizione sulla verginità perenne di Maria è immensa. In ogni caso però, fratello o cugino che fosse, Giacomo era molto vicino al Gesù della storia, a Yeshua, e in quanto tale è il rappresentante di un cristianesimo più fedele alle radici ebraiche, ovvero da un lato tendenzialmente più chiuso verso i non ebrei e più legalista, dall'altro più attento alla prassi e all'etica che non al dogma e alla dottrina. In questa prospettiva non stupisce il duro riferimento polemico di Giacomo contro Paolo, il leader della corrente opposta che spingeva verso l'apertura universale e insisteva di più sulla dimensione dottrinale. Ecco come Giacomo si rivolge a Paolo: "Insensato" (in greco kené, "vuoto", la stessa radice di kénosis) "vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore?" (Gc 2,20).È molto importante questa dialettica non priva di polemica tra due autori del NT, quasi che lo Spirito Santo avesse voluto dibattere tra sé e sé. Essa mostra come la libertà e la critica siano radicate nel cuore della rivelazione cristiana, e indica altresì come una Chiesa che reprima la libertà e la critica sia molto distante dal NT. Al proposito si pensi alle molte dichiarazioni volte ad anestetizzare le analisi critiche del cardinal Martini all'indomani della sua scomparsa, con l'unico scopo di riportarle nel modo consueto di intendere il governo della Chiesa e la bioetica, come se tra la linea di papa Ratzinger e quella di Martini vi sia stata completa identità, come se Martini non avesse scritto Conversazioni notturne a Gerusalemme o rilasciata l'ultima intervista, come se fosse morto dopo un anno di alimentazione e idratazione mediante sondino nasogastrico in fedeltà alla bioetica ecclesiastica attuale. Ma così non è stato, e ciò non fa che confermare la sua fedeltà al Nuovo Testamento, il quale sulla libertà di critica e di parola è assolutamente unanime. Se infatti Giacomo afferma: "Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà", Paolo non è da meno quando scrive nella Lettera ai Galati: "Voi siete stati chiamati a libertà" (Galati 5,13).

Il linguaggio comune e il suo oltrepassamento

Guardiamo ora più da vicino l'espressione "legge di libertà". Se ci si sofferma su un po', penso sia impossibile sottrarsi all'impressione di un paradosso, di una contradictio in terminis, come la logica scolastica definiva l'errore logico che porta ad accostare due termini il secondo dei quali è una negazione del primo. Dire "legge di libertà" è come "curva dritta", o se preferite "rettilineo curvo"; oppure "luce tenebrosa" o "tenebra luminosa". Si tratta di cose che, nella realtà, insieme non stanno: se c'è una curva, non può essere dritta; se c'è un rettilineo, non può essere curvo; se c'è una luce non può essere tenebrosa, e se c'è una tenebra non può essere luminosa. Unire le due cose significa produrre una contradictio in terminis, per la precisione una contradictio in adjecto.
E così appare, in prima battuta, l'espressione "legge di libertà". Infatti secondo l'accezione comune, libertà è opposta a legge: libertà è essere senza legge, godere della possibilità di fare o di non fare, di dire o di non dire, di pagare o di non pagare, mentre al contrario legge implica l'essere senza libertà, essere obbligati a fare, a tacere, a pagare. La situazione sembra insomma la seguente: se c'è libertà non c'è legge, se c'è legge non c'è libertà. E per questo l'espressione "secondo legge di libertà" è una contraddizione che rende impossibile il pensiero. 
Ma attenzione. Io sono convinto che per parlare di certe cose sia necessario piegare il linguaggio consueto, trascenderlo, forzarlo, talora persino usargli violenza. Il testo più decisivo per la storia della mistica occidentale è un esempio clamoroso di tutto ciò. Mi riferisco alla Teologia mistica di Dionigi Areopagita, o meglio di Dionigi Pseudo-Areopagita (due secoli fa è stato mostrato in modo incontrovertibile che il Dionigi autore del corpus dionisiaco non è il Dionigi cui si riferisce Atti 17,34, ma un autore del V-VI secolo, e quindi per questo si dice Pseudo-Dionigi Areopagita; rimane però che l'attribuzione della Teologia mistica a un personaggio dell'epoca apostolica la rese la più importante fonte normativa della mistica cristiana). 
Se voi leggete la Teologia mistica, impresa facilissima per la sua brevità, vi troverete in presenza di una lotta incessante con i limiti del linguaggio ordinario, visto che l'autore è ben conscio di quale immensa pazzia sia voler parlare di Dio. Per questo egli accumula una serie di contradictiones in terminis: "caligine luminosissima", "caligine che fa risplendere nella massima oscurità", "raggio soprasostanziale della divina tenebra" e giunge a scrivere una frase come la seguente: "Preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e mediante la privazione della vista e della conoscenza poter vedere e conoscere poter vedere e conoscere ciò che sta oltre la visione e la conoscenza con il fatto stesso di non vedere e di non conoscere" (MT 1,1-2; in Tutte le opere, a cura di Piero Scazzoso, Rusconi, Milano 1997, p. 406-407 e 410). 
Ciò che la mistica afferma a proposito di Dio, tenebra luminosa, non è molto distante dall'esperienza della libertà, un concetto quanto mai complesso, ambiguo, campo di interminabili battaglie: in filosofia si pensi, per fare solo un esempio, alla terza antinomia della Critica della ragion pura di Kant, e in teologia alle dispute tra Pelagio e Agostino, Erasmo e Lutero, gesuiti e domenicani, gesuiti e giansenisti).

 

La dialettica della libertà

L'espressione "secondo legge di libertà" è contraddittoria nel senso che contraddice il concetto ingenuo e superficiale di libertà del sentire comune. La vera libertà infatti è la libertà da se stessi, e questa si ottiene nell'adesione alla legge. 
Non alla legge come legalità, la legge degli uomini; ma alla legge in quanto logica del reale, la legge della vita (o, se qualcuno preferisce, la legge di Dio). Con questo non intendo certo disprezzare la legge degli uomini, che anzi ritengo di fondamentale importanza a livello civico e per questo ammiro il prezioso lavoro di educazione alla legalità, così necessario nel nostro paese (cf. Gherardo Colombo, Sulle regole). Dicendo legge non come legalità ma come logica del reale, intendo piuttosto rimandare a un livello più profondo, per illustrare il quale vi leggo una pagina di Pavel Florenskij tratta da una lettera del 15 agosto 1917 a Sergej Bulgakov: 
"Nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi. Io non voglio la legalità, non riesco ad apprezzarla, perché so di essere un brigante. Infatti non dovrei essere qui, seduto nel mio studio, ma dovrei andare a briglia sciolta nel cuore della notte, dovrei galoppare senza meta e gareggiare con il vento su un cavallo del Karabach. Non mi turba nessun ostacolo costruito da mani di uomo: lo brucio, lo spacco, diventando di nuovo libero, lasciandomi portare dal soffio del vento. Così farò qui sulla terra. Non desidero impadronirmi dell'Azzurro-celeste, ma lo voglio attuare in me. E desidero non dimenticare mai che esso, regno di pace eterna, regno sereno senza tempeste, che è sopra di me, è riversato in me come un olio santo. Perciò devoto all'Azzurro, e solo ad esso".
Spero che anche voi abbiate percepito in queste righe la dialettica tra negazione di ogni legame ("nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi, io non voglio la legalità") e desiderio di un legame ancora più intenso ("non desidero impadronirmi dell'Azzurro-celeste, ma lo voglio attuare in me… esso è sopra di me… perciò devoto all'Azzurro"). Qui c'è il desiderio di rompere gli schemi consolidati e i vincoli delle consuetudini, non per un gusto dell'anarchia o per immaturo narcisismo, ma per raggiungere una dedizione ancora più intensa, ancora più autentica, ancora più totale. Se si vuole infrangere la legge del "sta scritto, adeguati, obbedisci" è per entrare in una dimensione di obbedienza più interiore, e per questo ancora più intensa. 
Sto dicendo che c'è una profondissima adesione dell'anima, che supera la legge degli uomini, anche quando tale legge pretende di parlare di Dio chiamandosi "dogmatica" o "diritto canonico". Questa più profonda adesione supera il livello della lex-legis e attinge il livello del diritto in quanto ius iuris. Da ius derivano iustus e iustitia. Qui si comprende che la legge di libertà è la logica-logos del reale, perché essa rappresenta la relazione armoniosa, la quale, a livello fisico, produce i legami degli elementi alla base della consistenza della materia e della nascita e dell'evoluzione della vita, e, a livello umano, produce la giustizia, il prodotto per eccellenza del diritto. Iustitia è generata da ius. 
Da ius viene anche il verbo iuro, iurare, cioè "giurare, prestare giuramento". Che cosa fa chi giura? Lega la libertà a un patto, il quale diviene legge per lui. Liberamente si lega a un patto, liberamente entra nella logica profonda della legge di libertà.
Concludo con un verso della poesia che nell'agosto 1796 il giovane Hegel dedicò all'amico Hölderlin, suo compagno di stanza, insieme a Schelling, nel collegio teologico di Tubinga. La poesia si intitola Eleusis e il verso è il seguente: 
"… l'ebbrezza di sapere la fedeltà al patto antico, ancor più incrollabile e matura, a quel patto, non suggellato da giuramento, di vivere solo in libera verità e di giammai mercanteggiare".