L’ATEISMO DI FATTO O PER SCELTA QUEI DUE PRIMI PASSAGGI STONATI
Prevost elenca i rischi di chi non crede. Ma le religioni devono risvegliare l’umanità, non possederla.
Fino a prima dell’omelia di ieri mattina nella Sistina Papa Leone incarnava ai miei occhi una perfetta manifestazione dell’aureo concetto di complexio oppositorum, alla lettera “complesso degli opposti”, più efficacemente “concerto degli opposti”. Si tratta di un concetto peculiare del cattolicesimo, caratterizzato dal privilegiare (a differenza del protestantesimo che insiste sulla logica della distinzione “aut aut”) la logica dell’armonia “et et”. Non “o questo o quello”, bensì “sia questo sia quello”, in un abbraccio simile al colonnato del Bernini …
Perché Papa Leone XIV mi faceva pensare fin dai primi istanti alla complexio oppositorum non è difficile dire: è americano ma anche europeo per le origini dei genitori; è nordamericano ma anche sudamericano per tutti gli anni trascorsi in Perù; ha una formazione teologica ma anche matematica; ha il rigore del canonista per il dottorato in diritto canonico ma è stato un interprete della Chiesa della misericordia di papa Francesco; è stato cardinale di curia ma anche prete missionario a contatto con i più umili. Né va tralasciato il suo essere multilingue. Pensavo che meglio non sarebbe potuta finire.
Poi però ieri mattina sono rimasto colpito negativamente da due passaggi della sua prima omelia, per altri aspetti molto bella (soprattutto quelle parole sullo “sparire perché rimanga Cristo”), e mi è sorto qualche dubbio sulla sua capacità di servire la preziosa logica della complexio oppositorum di cui il nostro tempo ha tanto bisogno.
Mi riferisco dapprima alla sua equiparazione tra l’opinione di chi guarda a Gesù solo come “una specie di leader carismatico o di superuomo” e “ateismo di fatto”; poi a questa sua considerazione che riporto testualmente: “La mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco”.
Per quanto riguarda la prima affermazione di Papa Leone, io chiedo: ma davvero chi nega la natura divina di Gesù o la valuta diversamente dal dogma cristiano vive in un “ateismo di fatto”? Io penso proprio di no. Si può benissimo pensare a Gesù come a un grande uomo, un santo, un profeta, magari il più grande tra i profeti, senza per nulla abbracciare né teoricamente né praticamente la visione atea della vita che nega la Trascendenza e riduce tutto a materia approdando al più puro nichilismo teoretico. Negare la natura divina di Gesù non è ateismo, meno che mai lo è diminuirla rispetto alla pienezza della natura divina del Padre. Semmai è una forma di fede diversa dal cristianesimo ortodosso proclamato a Nicea 1700 anni fa che designa Gesù “della stessa sostanza del Padre”, per ritenere invece che avessero ragione Ario e i suoi, tra cui il vescovo Eusebio di Cesarea, importante storico delle origini cristiane. Perché questa loro visione teologica dovrebbe essere “ateismo”? Non lo è, è piuttosto un modo diverso di credere in Dio. Così come quello dell’ebraismo e dell’islam che non attribuiscono alcuna natura divina a Gesù, e che non sono certo ateismo ma appunto altri modi di credere in Dio.
Il Papa nella sua omelia ha giustamente biasimato una certa spocchia intellettuale di alcuni non credenti che considerano la fede qualcosa di poco dignitoso per l’intelligenza umana, e ha fatto più che bene visto che la storia della scienza annovera al suo interno grandi protagonisti che furono al contempo grandi credenti, tra cui Keplero, Eulero, Newton, Mendel (frate agostiniano come papa Leone), Cantor, Gödel, Planck, Heisenberg e non pochi altri. Ognuno di essi però credeva sì in Dio, ma a modo suo. Newton, tanto per fare un esempio, era unitariano e quindi pensava Gesù esattamente secondo quella impostazione non conforme a Nicea criticata dal Papa, senza per questo però essere ateo, visto che credeva fermamente in Dio e passava metà delle sue giornate a occuparsi di fisica e l’altra metà a studiare la Bibbia.
L’altra affermazione di papa Leone mi ha sorpreso ancora più negativamente, perché collega direttamente la mancanza di fede con gli effetti negativi da lui citati quali l’assenza del senso della vita, l'oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona, la crisi della famiglia. A mio avviso sono parole ben poco felici. Lo dico pensando a tante persone che non hanno, o non hanno più, la fede in Dio, e che non per questo sperimentano tutti quei drammi descritti dal Papa, né dimenticano la misericordia, anzi al contrario talora contribuiscono non meno dei credenti ad aiutare i bisognosi. Tanto per fare un nome, penso a Gino Strada, il quale non ha avuto bisogno della fede in Dio per fare tutto il bene che ha fatto. Senza contare, poi, che all’opposto vi sono credenti, anche molto fervorosi nell’esibire la loro fede, che invece non esitano a compiere ciò che il Papa ha definito “la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche”: e il pensiero, ovviamente, non può non andare ai numerosi esponenti del clero protagonisti di abusi sessuali sui bambini in tutto il mondo. O ai furti e agli scandali finanziari avvenuti recentemente proprio in Vaticano. O ad altre malvagità che è inutile elencare.
Io non sono ateo, non lo sono mai stato e spero di non diventarlo perché il patrimonio ideale della fede in Dio, insieme all’amore della mia famiglia, è quanto più mi sostiene nel cammino dell’esistenza. Però ho imparato dal mio maestro spirituale, il cardinale Carlo Maria Martini, che esiste una dimensione importante, vorrei dire un “magistero”, dell’ateismo, per rispetto del quale Martini fondò a Milano l’iniziativa detta “Cattedra dei non credenti”. Egli diceva che dentro di lui esistevano un credente e non credente che ogni giorno lottavano tra loro alla ricerca della verità. Mi piace poi ricordare anche questa poesia di padre Turoldo: “Fratello ateo nobilmente pensoso”. Il testo dice così: “Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi verso il nudo essere, e là, dove la parola muore, abbia fine il nostro cammino”.
Ecco, io penso che non ci sia niente di più prezioso del nobile pensare, di quel pensiero che è veramente tale perché sente che qualcosa esiste (altrimenti non cercherebbe) ma che al contempo sa di non possederlo (altrimenti, allo stesso modo, non cercherebbe). È quanto sosteneva un altro grande maestro, Norberto Bobbio, che un giorno disse: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa” (devo la frase al cardinal Martini che amava farla propria).
Ieri concludevo il mio articolo, citando sant’Agostino dal libro X delle Confessioni là dove afferma che l’amore di Dio coincide con l’amore per la luce dell’uomo interiore che è in noi. Io penso sia questo il vero grande mistero: che l’universo abbia generato la coscienza, più in particolare la coscienza morale. Io penso che le religioni devono servire con umiltà questo mistero, risvegliando a esso l’umanità, senza pretendere di possederlo del tutto. Io penso sia questa la spiritualità di cui il nostro mondo ha bisogno per raggiungere veramente la pace che sta tanto a cuore a papa Leone.
Vito Mancuso, La Stampa 10 maggio 2025