Papa Francesco e la profezia

IL PROFETA “FINO A UN CERTO PUNTO” E IL CAMBIAMENTO LASCIATO A METÀ

 «In ambito ecclesiastico, dove aveva effettivamente la possibilità di decidere e di cambiare, egli quell’ultima e decisiva parola che avrebbe reso la profezia realtà non l’ha mai pronunciata».

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Negli articoli precedenti su papa Francesco ho usato il termine “profeta” per contraddistinguere la sua figura complessiva, così diversa dal teologo che fu Benedetto XVI e dal grande uomo di governo che fu Giovanni Paolo II. Ora però aggiungo che Francesco, a mio avviso, è stato profeta “fino a un certo punto”. Quale punto? Quello nel quale l'ultima parola in ordine alla decisione spettava ad altri e non a lui. Quando invece toccava a lui dover dire l'ultima decisiva parola per mettere in moto il processo di cambiamento, la sua profezia sistematicamente cedeva il passo alla diplomazia ed egli da profeta si trasformava in uomo di governo. Con tutti i limiti, ma anche con i pregi, dell’uomo di governo. E con questa osservazione non intendo per nulla avanzare una critica verso di lui, ma osservare le cose come si presentano e proporre una riflessione al fine di trarre una lezione, metodologica e contenutistica al contempo. Su cosa? Sulla concretezza del reale con cui gli ideali profetici devono fare, volenti o nolenti, i conti. Sia nella Chiesa, sia nel grande mondo della politica altresì chiamato Storia …

Francesco profeticamente, instancabilmente e fortemente ha proclamato il disarmo. Se ha fatto bene oppure no, dipende dalla visione del mondo di ognuno di noi, quello che è certo è che la sua profezia volava alto, toccava le coscienze, indignava e al contempo inteneriva i cuori, e d’altronde cosa ci si può aspettare da un Papa, forse che inciti gli Stati ad armarsi ancora di più di quanto lo non siano già? Le sue parole però non potevano incidere sulla realtà effettuale, perché a questo riguardo la decisione è necessariamente nelle mani dei governanti, non degli uomini di Chiesa. Papa Francesco non aveva nessun potere effettivo in ordine al riarmo o al disarmo degli Stati, né aveva la responsabilità della difesa dei popoli che li abitano.

Ma se papa Francesco, anzi se l’uomo Jorge Mario Bergoglio, fosse stato il Presidente dell'Ucraina invasa dalla Russia di Putin, cosa avrebbe detto a proposito delle armi? Avrebbe continuato a condannarle o le avrebbe egli stesso richieste, come fa il presidente Zelensky? E se non le avesse richieste ma avesse mantenuto il proposito di non usarle mai e poi mai, come avrebbe difeso la sua patria e i suoi cittadini?

Non lo sappiamo né lo possiamo sapere, sappiamo però che, laddove egli aveva effettivamente la possibilità di decidere e di cambiare pronunciando l'ultima risolutiva parola, cioè nell'ambito ecclesiastico, egli quell'ultima risolutiva parola che avrebbe reso la profezia realtà non l'ha mai pronunciata. Esemplari al riguardo sono gli episodi del Sinodo sulla famiglia tenutosi in due puntate nel 2014 e nel 2015, del Sinodo sull'Amazzonia del 2019 e anche dell’ultimo Sinodo sulla sinodalità (una specie di “discorso sul metodo” alla Cartesio sulla prassi ecclesiale) iniziato nel 2021 e conclusosi nel 2024, ma non ancora definitivamente attuato a livello locale com’è apparso dalla bocciatura del documento dei vescovi italiani il 3 aprile scorso. In tutti e tre questi appuntamenti sinodali e di governo, nei quali papa Francesco poteva incidere e trasformare la carica profetica in atti concreti di governo e di dottrina, si è avuta tantissima carta prodotta ma nessuna effettiva svolta attuata. 

L’esempio più lampante è la famosa nota 351 del paragrafo 305 del documento “Amoris laetitia” del 2016, l’esortazione apostolica con cui papa Francesco riassumeva e proponeva a tutta la Chiesa i lavori del Sinodo sulla famiglia. Nel testo si legge che coloro che vivono “entro una situazione oggettiva di peccato” (cioè, secondo la dottrina cattolica, i divorziati risposati) possono vivere “in grazia di Dio” e lo possono fare “ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa”. Poi, nella nota a piè di pagina, il Papa specificava quale tipo di aiuto la Chiesa può offrire: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti”. E dopo aver ricordato la clemenza nella confessione, proseguiva: “Segnalo che l’Eucaristia non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Cosa si deve concludere a questo punto? Che la comunione dei divorziati risposati è permessa? E che in questo modo la prassi secolare della Chiesa cattolica, depositata nel canone 915 del Codice di Diritto Canonico, è cambiata? Qualcuno lo pensa, altri lo negano, ma invano si cercherebbe una risposta chiara nei successivi pronunciamenti papali (di quelle risposte che amava Gesù, cioè “sì sì, no no”), in quanto tale risposta chiara non esiste. Il risultato è che oggi vi sono comunità della Chiesa cattolica in cui i divorziati risposati sono ammessi alla comunione e altre dove non sono ammessi, per cui la Chiesa di fatto conosce due diverse discipline sacramentali. 

Dov’è finita, quindi, la voce chiara e forte del profeta? Perché quel vigore e quella intransigenza usati da Francesco nel parlare dei migranti, dei carcerati, dei poveri, degli armamenti, qui, in queste questioni che riguardano direttamente il suo governo, sono quasi completamente assenti, sepolti da una serie di osservazioni e di distinguo, per farli emergere assai debolmente in una nota a piè di pagina che poi non viene ripresa e approfondita altrove, ma semmai edulcorata e lasciata in una beata ambiguità all’insegna del “fai da te” pastorale? La risposta non è difficile: per la durezza e la complessità del reale. Esattamente quella durezza e quella complessità con cui i governanti degli Stati devono fare i conti quando si tratta di decidere come difendere i loro cittadini dalle minacce che il mondo purtroppo regolarmente ancora propone, visto che siamo ben distanti dalla situazione cantata dal profeta Isaia dicendo che “il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso” senza subire nessuna conseguenza. Non è così purtroppo, perché ancora i serpenti velenosi mordono e uccidono, soprattutto i bambini indifesi, e compito dei governanti è difenderli, non farli morire e nemmeno farli rapire (come purtroppo è avvenuto a numerosi bambini ucraini).

La stessa ambigua situazione si ripresenta per il Sinodo sull’Amazzonia del 2019, nel quale la principale finalità era l’ordinazione dei cosiddetti “viri probati” (alla lettera “uomini provati”, ovvero padri di famiglia esemplari e di una certa età da rendere sacerdoti a tutti gli effetti), la quale era stata votata a maggioranza dall’assemblea sinodale, ma nonostante ciò non venne mai recepita da papa Francesco nel documento finale e decadde completamente. Perché il papa agì così? Perché ignorò la coraggiosa votazione dell’assemblea sinodale? Anche qui la risposta non è difficile: lo fece per ragioni diplomatiche, volendo recepire l’opposizione di forti settori della Chiesa (tra cui quella del suo predecessore Benedetto XVI). Ancora una volta quindi in ambito ecclesiale nessuna profezia, ma tanta, forse troppa, diplomazia. 

Ma per quanto troppa, tale diplomazia era ed è inevitabile, se si vuole rispettare la complessità di una Chiesa reale nelle sue diverse articolazioni, nella quale alcuni spingono perché arrivino le riforme e altri spingono dall’altra parte perché non arrivino, scontenti e preoccupati già solo per il fatto che si parli di riforme. E non si tratta solo di singoli individui, ma di interi paesi, con la Germania capofila del cattolicesimo progressista scontento e con la Polonia capofila del cattolicesimo conservatore altresì scontento, per non parlare dell’intero continente africano che rappresenta il blocco più duro e compatto del fronte conservatore. Nel Nord Europa se non si giunge al più presto a promuovere la condizione della donna a partire dal diaconato femminile molti lasciano la Chiesa come avviene pesantemente in Germania, in Africa avverrebbe lo stesso se invece la si promuovesse introducendo il diaconato femminile, non parliamo neppure del sacerdozio. Come si deve muovere, quindi, un papa in ambito ecclesiale, se non con diplomazia? È esattamente quello che ha fatto Francesco: tante esortazioni, pochi provvedimenti, tante parole, pochi fatti. 

Lezione da trarre: la profezia è facile quando non riguarda direttamente la struttura che si deve governare, molto difficile quando si ha una responsabilità di governo. In questo secondo caso entra necessariamente in campo la diplomazia e la ricerca del compromesso. Ma tale ricerca del compromesso, ben lungi dal dover essere svalutata, è di fatto l’unica saggia modalità di portare avanti il governo del reale. Amos Oz, tra i più grandi scrittori del nostro tempo, in un suo piccolo saggio dapprima delinea il problema di dover essere fedele alla purezza degli ideali o alla durezza della realtà, e poi prosegue: “Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa… non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita e dove c'è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo e morte”.  

Papa Francesco non sbagliava quando faceva il profeta e non sbagliava quando faceva l’uomo di governo. Faceva l’unica cosa possibile: in ambito ecclesiale indicava una giusta e auspicabile prospettiva di assoluta accoglienza per tutti, e in ambito secolare indicava il sogno di un mondo nuovo nel quale “una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione” (Isaia 2,4). Ma fino a quando vi saranno nazioni che alzano la spada, i governanti sono chiamati a difendere i loro cittadini nell’unico modo attualmente a disposizione degli esseri umani di fronte a un attacco armato, cioè con le armi. Si chiama arte del compromesso e serve la vita. Il contrario si chiama fanatismo e conduce alla morte, di sicuro di quella dei più deboli.

Vito Mancuso, La Stampa 23 aprile 2025