Morte e morire

L’ANGOSCIA DELLA MORTE TOCCA ANCHE IL PAPA E NON C’È NESSO CON LA FEDE IN DIO

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Cosa diremo noi quando sarà il nostro momento? Cosa diremo in quell’istante che a ragione è detto “fatale”, perché segnerà in modo irrevocabile l’incontro con il supremo Fato? Quali parole ci saliranno dal cuore di fronte alla morte che vedremo arrivare? La notte del 28 febbraio scorso è toccato a papa Francesco arrivare in quella situazione e, dall’intervista del Corriere della Sera al dottor Sergio Alfieri capo dell’équipe medica che l’aveva in cura, si è appreso che le parole del Papa sono state le seguenti: “È brutto”. Il medico ha aggiunto che “chi gli era accanto aveva le lacrime agli occhi”, a sottolineare il tragico livello emotivo della situazione. Come si muore? Come vivremo la nostra morte? Queste cupe parole del Papa ci possono insegnare qualcosa? …

Penso siano troppe le varianti in gioco: dipenderà dall’età, dal tipo di malattia che ci starà consumando, se saremo soli o se qualcuno ci terrà per mano, dalla nostra psiche se rassegnata oppure no, se capace di dire il supremo sì al Fato (come Nietzsche desiderava: “Voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!”) o se resistente fino all’ultimo. Di Kant si dice che morì mormorando “Es ist gut” (Va bene), ma non si sa se si riferiva alla vita o alla quantità d’acqua che gli era stata versata. Lo stesso vale per Goethe di cui raccontano che morì dicendo “Mehr Licht” (Più luce), ma non si sa se si riferiva al desiderio di incontrare l’eterno o di aprire un po’ di più le persiane. Ci sono grandi uomini che sono morti serenamente e altri tragicamente, e tutto è come compendiato nelle ultime parole di Gesù che per due vangeli furono di disperazione (“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”) e per altri due di consolazione e addirittura di vittoria (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito”, “È compiuto”).

Ma cosa vale di più? Dire sì alla morte che arriva, oppure dirle no? Un sì obbediente espressione dell’Amor Fati, oppure un no testardo espressione dell’Amor Vitae? Un sì che dice “fiat voluntas tua” e si lascia andare, oppure un no che si aggrappa alla vita e continua a esistere?  

Io non so rispondere se non con un laconico “dipende”. È così imponderabile la questione, così soggettivamente determinata. Immagino però che molto dipenda dal pensiero che si coltiva su ciò che arriva con l’arrivo della morte. Quando arriva la morte, cosa arriva con essa? Il nulla, oppure Dio? La fine di tutto, oppure la vita senza fine? Seconda questione: come giudicare la morte e la sua presenza nel mondo? È qualcosa di naturale all’interno della vita, oppure è una tragedia prodottasi dopo, e che nella vita non avrebbe dovuto esserci? Per dirla in termini teologici: la morte è stata prevista da Dio, oppure è giunta imprevista a seguito del peccato?

La storia della spiritualità cristiana non aiuta nella risposta perché due grandissime figure quali san Paolo e san Francesco d’Assisi la pensano in modo opposto. Per Paolo le cose sono andate così: “A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte”, vi è quindi un legame diretto tra peccato e morte, nel senso che se c’è la morte è perché prima c’è stato il peccato, e infatti per Paolo la morte è un nemico: “l’ultimo nemico”.

Francesco invece nel Cantico delle creature definisce la morte “sorella” e ne loda il Signore: “Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, / da la quale nullo omo vivente po’ scampare”. Egli aggiunse questa strofa in un secondo tempo, quando era quasi cieco e sentiva che stava per morire, come di fatto poco dopo avvenne. 

La medesima contraddizione si ritrova nell’ebraismo: il libro della Sapienza afferma che la morte non è stata voluta da Dio ma è “entrata nel mondo per invidia del diavolo” e quindi è ontologicamente malvagia, mentre il libro del Siracide la definisce “il decreto del Signore per ogni uomo” considerandola ontologicamente buona. Mistero! Un libro biblico dichiara la morte voluta dal diavolo, un altro voluta da Dio; un grande santo parla della morte come “nemico”, un altro non meno grande come “sorella”. Quale delle due prospettive privilegiare? 

Ognuno deve vedersela con sé, con la propria coscienza e soprattutto con la propria esistenza. Per quanto mi riguarda, io sto con san Francesco e con il Siracide. Considero cioè la morte non un castigo a seguito del peccato ma qualcosa di naturale, iscritta da sempre nella logica di questa vita. A mio avviso accettarla è segno di sapienza e genera libertà. Noi siamo qui grazie al lavoro e alla morte di altri, e siamo chiamati a lavorare e a morire per l’esistenza di altri. Questa è la logica che la vita ci consegna. Accettarla significa “rinnegare se stessi”, per riprendere una nota espressione di Gesù, cioè non fare del proprio ego il centro del mondo, bensì porlo al servizio di qualcosa di più grande. Di cosa? Del processo cosmico. 

I cristiani lo chiamano “creazione” e lo ritengono provenire direttamente da Dio, idea condivisa da ebrei e musulmani; altri lo chiamano in altro modo attribuendogli un’altra origine arrivando a sostenere, come Spinoza, che esso coincide con la perfezione dell’essere e che quindi tra Dio e Natura non vi è differenza: “Deus sive Natura”. Quello che è certo è che il processo cosmico contiene tutti: monoteisti, panteisti, agnostici, atei, e il compito della mente consiste nel comprendere quale relazione istituire con esso e orientarsi di conseguenza. Il processo cosmico che ci ha generati e che inevitabilmente ci condurrà alla de-generazione è un nemico o un alleato della nostra vita? Considerarlo alleato significa accettarlo per quello che è, presenza della morte compresa, e questo, a mio avviso, è una matura adesione alla vita.

Naturalmente tutto questo non implica affatto che non si debba lottare per rimanere in vita, coltivando la forza più primordiale che è in noi cioè l’istinto di sopravvivenza. Sempre di fronte a una malattia si deve voler guarire e aiutare a guarire. I medici sono chiamati a fare questo e questo devono fare i malati, perché la vita la si onora anzitutto vivendo, oltre al fatto che questo mondo è bellissimo e viverci è una meraviglia di cui ogni giorno dovremmo prendere consapevolezza con una gioia profonda e riconoscente verso il processo cosmico (in qualunque modo lo si consideri e lo si chiami). 

Concludo con tre citazioni.  La prima è di Montaigne: “La meditazione della morte è meditazione della libertà; chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire; il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione”. La seconda è di Norberto Bobbio: “Prendere sul serio la vita vuol dire accettare fermamente, rigorosamente, il più serenamente possibile, la sua finitezza”. La terza è la più antica, consiste nelle bellissime parole finali dell’Ave Maria, ripetute chissà quanti milioni di volte nella storia del mondo: “Adesso e nell’ora della nostra morte”. Nunc et in hora mortis nostrae. Perché si è sentito e si sente il bisogno di pregare la Madonna che preghi per noi nell’ora della nostra morte? Perché in quell’occasione tutte le nostre idee filosofiche e teologiche possono crollare e ci si ritrova da soli, spaventati, di fronte al buio della fine. Questo è possibile, reale, umanissimo, e per questo si prega la Madre di Dio che preghi per noi. Perché papa Francesco ha detto “è brutto”? Non ne ho idea, ma di certo credo che gli abbia giovato moltissimo quanto affermato dal dottor Alfieri a proposito della sua resistenza: “Penso che a questo abbia contribuito anche il fatto che tutto il mondo pregava per lui”.

La preghiera dell’Ave Maria si conclude dicendo “Amen”, espressione ebraica che vuol dire “Così sia”, a significare quel sì che Nietzsche avrebbe voluto essere rispetto al processo cosmico: “Voglio soltanto essere, d’ora in poi, uno che dice sì!”. Il che significa che l’abbandono fiducioso al processo cosmico prescinde dal credere o non credere in Dio, e riguarda quelli che un tempo si denominavano “uomini di buona volontà”. 

Vito Mancuso, La Stampa 26 marzo 2025