A Pasqua si celebra quella di Cristo ma il simbolo che rappresenta va al di là della fede. Oggi a correre un pericolo mortale è l’anima, l’unica che può costituire la nostra rinascita.
Il punto decisivo consiste nel chiarire che cosa dentro di noi sta morendo, per comprendere se esiste almeno un po’ la possibilità che un giorno possa risorgere. Sul fatto che qualcosa dentro di noi stia morendo, nessuno, penso, ha più dubbi: lo sentiamo perfettamente, è un rumore sordo e persistente, una specie di basso continuo che ritma funereo le nostre giornate e che deriva dalla consapevolezza delle sempre più incombenti minacce: la guerra nucleare, l’emergenza climatica, lo scollamento tra generazioni mai così profondo nella storia dell’umanità, le abissali sperequazioni tra i pochi super-ricchi e le masse di diseredati, le migrazioni così massicce di popoli da generare una “deriva dei continenti” di tipo sociale, l’uso dell’intelligenza artificiale assai facilmente trasformabile in abuso, l’ingegneria genetica che corre esattamente lo stesso rischio. E poi c’è quel processo di crescente “infantilizzazione delle masse”, per dirla con Amos Oz, che cancella il confine tra politica e spettacolo per cui la gente non vota più chi può governare meglio, ma chi emoziona e diverte, perché questo oggi desiderano i più: essere emozionati, come bambini viziati nel paese dei balocchi. Tutte insieme queste ombre che gravano su di noi costituiscono una tale oscura densità da portarci a dire: “Basta, voglio andarmene da questa via crucis”. Ma di fronte a minacce così globali non è possibile scappare da nessuna parte. Perciò torna la domanda: che cosa precisamente dentro di noi sta morendo?
Hannah Arendt, dal cui pensiero promana la luce salvifica della vera filosofia, ha scritto: “La cosa veramente da comprendere è che l’«anima» può essere distrutta anche senza distruggere l’uomo fisico” (Le origini del totalitarismo, p. 603). A correre un pericolo mortale oggi è “l’anima”. L’altro giorno Umberto Galimberti ha dichiarato a questo giornale che l’anima “non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un’invenzione di Platone”. Non è vero. Platone ha certamente contribuito ad approfondirne il concetto, ma l’anima era presente in tutte le grandi civiltà prima di lui: in Cina il taoismo parlava di “hun” (l’anima spirituale che sopravvive) e di “po’” (quella psichica che muore); in India gli hindu di “atman” e di “jiva” sostenendo la reincarnazione; in Grecia con Pitagora, Empedocle e Anassagora la filosofia coniò i concetti di “nous” e di “psyché”; ancora prima gli egizi conoscevano tre tipi di anima (“ak, ba, ka”) e per ognuno di noi prevedevano al termine della vita la psicostasia, la pesatura della sua anima. Quanto all’ebraismo, in esso è presente un triplice concetto di anima (“nefesh, ruah, neshamà”), per il quale si veda il saggio del rabbino Adin Steinsalz, “L’anima” (Giuntina 2018) al cui inizio è scritto: “Abbiamo un’anima. Possiamo affermarlo perché lo percepiamo”. E che infine Gesù, teologicamente vicino al movimento dei farisei, condividesse l’esistenza dell’anima e la sua immortalità, risulta evidente dai Vangeli. Altro che “invenzione di Platone”. Ma perché le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, religiose e filosofiche, sentirono l’esigenza di parlare di anima? Io penso sia stato per sottolineare la peculiarità umana. Noi umani per molti aspetti siamo un pezzo di mondo materiale, identici a ogni altra manifestazione della materia; per altri aspetti però no, siamo diversi. E fu per esprimere questa differenza che la mente coniò il concetto di anima. La medesima funzione rivestirono altri concetti analoghi, tra cui spirito, coscienza, libertà.
Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: ciò che dentro di noi sta agonizzando è la nostra differenza specifica di esseri umani. La nostra interiorità (la si chiami anima o in altri modi poco importa, ciò che importa è che la si consideri la nostra più preziosa ricchezza) oggi corre il pericolo di essere distrutta, avvertiva Hannah Arendt. Oggi noi possiamo dire: hackerata. Forse lo è già. Forse noi siamo già in parte hackerati, e i pensieri che esprimiamo a parole non sono più nostri ma di qualcun altro introdottosi dentro la nostra mente. Quando parliamo, chi parla dentro di noi? Quando abbiamo sentimenti, chi sente dentro di noi? Quello che è sicuro, comunque, è che, non credendo all’anima spirituale e alla sua capacità di guida (detta da Marco Aurelio “ēghemonikón”), noi soffriamo di sfiducia in noi stessi. È questa la malattia mortale, la via crucis di noi postmoderni e postumani: la sfiducia nella nostra umanità. Pico della Mirandola, gloria del pensiero filosofico del rinascimento italiano, poté scrivere un saggio dal titolo: “Oratio de hominis dignitate”, ovvero: “Discorso sulla grandezza dell'essere umano”. Oggi siamo solo capaci di mettere in evidenza le nostre miserie. Le quali ci sono, è evidente, e sono tante, ma, io penso, non sono tutto.
Si può credere o no alla risurrezione di Cristo che la Chiesa cattolica celebra domani, ma il simbolo che essa rappresenta va al di là della fede teologica perché rimanda alla speranza e alla visione positiva del processo vitale. E se la malattia di cui soffriamo è la sfiducia in noi stessi, il farmaco che ci potrà curare si chiama fiducia. È un atteggiamento razionale? No, non lo è. Tutte le cose veramente importanti dell'esistenza psichica non sono razionali: si pensi all'amore, alla passione, all'entusiasmo, all'ispirazione. Ma irrazionale non vuol dire falso, perché la verità non coincide con la ragione, è piuttosto l'esattezza a coincidere con la ragione. La verità è più dell'esattezza: è forza, energia, impeto, impegno; “eroico furore”, diceva Giordano Bruno. Il 3 luglio 1943, mentre si trovava nel lager olandese di Westerbork da cui poi sarebbe stata deportata ad Auschwitz trovandovi la morte il 30 novembre di quello stesso anno, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, scriveva ad alcuni amici: “La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure, la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”. E concludeva: “Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi”. L’anima (o la coscienza, o come ancora la si voglia chiamare) è questo posto di guardia dentro di noi, che, per chi ha la fortuna di averlo, può costituire la sua salvezza. La sua risurrezione quotidiana. E che non ci sia nulla di più prezioso, lo insegnano tutti i grandi maestri spirituali, da Socrate al Buddha, da Confucio a Gesù. Quest’ultimo un giorno disse: “A che serve a un essere umano guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?”.
Vito Mancuso, La Stampa Sabato Santo 8 Aprile 2023