Intervista al Corriere del Veneto

«Islamici in chiesa? Non sia un’abitudine e ora serve più rigore contro gli oltraggi ma il Veneto ha gli anticorpi giusti»

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Intervista del 9 agosto 2016 di Angela Pederiva

Corriere del Veneto 9 agosto 2016 [PDF]

Padova. Il marocchino che spezza il crocifisso nella chiesa di San Geremia a Venezia, il turco che prega alla stazione di Santa Lucia con una mannaia nello zaino, il tunisino che corre nudo per il Prato della Valle a Padova gridando «Allah akbar», gli oltraggi di alcuni turisti musulmani alla croce e all’eucarestia nella parrocchiale di San Zulian in laguna. E ogni volta interventi delle forze dell’ordine, espulsioni, polemiche. Le cronache degli ultimi giorni raccontano un crescendo di tensione nei rapporti fra Veneto e islam. «Bisogna essere duri nei confronti della profanazione dei simboli e della violazione dei diritti, ma occorre anche operare una distinzione fra gli autori e la religione», afferma il teologo Vito Mancuso, già docente di Storia delle dottrine teologiche all’Università di Padova, ospite sabato prossimo a Cortina d’Ampezzo della rassegna «Una montagna di libri».

Due domeniche fa anche in Veneto i fedeli musulmani hanno partecipato alle messe cattoliche: è il modo giusto per superare le diffidenze?

«A mio parere quell’iniziativa ha avuto un significato etico-politico, più che spiritual-religioso. Pregando insieme gli islamici hanno inteso prendere le distanze dal terrorismo e dimostrare la solidarietà ai cattolici. Ma non ci sono le condizioni strutturali perché questo gesto possa diventare parte della liturgia cristiana, perché dietro ad ogni liturgia c’è sempre una particolare teologia. Una celebrazione che comincia e finisce “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” rimanda ad una concezione trinitaria che è inaccettabile e perfino blasfema per i musulmani»…

Tutto inutile, quindi?

«No, ma va apprezzato per quello che è: un gesto che non deve diventare una consuetudine, ma che potrebbe essere ripetuto magari una volta all’anno, mettendo da parte i riti e ritrovandosi insieme nel silenzio e nella fraternità. Così si capirebbe che tutte le dottrine non sono certo definitive, ma uno strumento per aprire la mente e il cuore alla comprensione della legittimità della posizione altrui. Se invece penso che la mia religione è il punto di arrivo e che gli altri sono gli infedeli, non c’è spazio per la comprensione, il dialogo e la tolleranza».

C’è il rischio che la Chiesa appaia eccessivamente buonista, nel non condannare nettamente certi episodi?

«Sì, questo rischio può esserci. La profanazione dell’ostia e lo sfregio del crocifisso sono chiare manifestazioni di odio verso la religione che a mio avviso non ammettono giustificazioni. Su questo bisogna essere fermi, così come se ci dovessero essere altre lesioni dei simboli della civiltà occidentale, come il pluralismo politico, il rispetto della donna, la libertà di parola e di stampa. Dopodiché il compito della Chiesa, e delle persone che ragionano, è distinguere: un conto è condannare i musulmani che commettono le offese e che non capiscono neanche il senso profondo della loro religione, perché nel Corano ci sono parole di rispetto per il cristianesimo; un altro è condannare l’islam in quanto tale. Se passa l’equazione “islam uguale fanatici-terroristi-profanatori”, noi occidentali ci troveremo ad affrontare un miliardo e mezzo di potenziali assassini, facendo così uno dei migliori servizi all’Isis e uno dei peggiori all’Occidente. Dov’è che si perde o si vince questa guerra, parola che non ho paura a usare? Nella mente dei musulmani che vivono tra noi, che sono il vero obiettivo del Califfato. Dobbiamo far sì che capiscano che vivere in un contesto pluralistico civile, sensibile ai diritti umani, democratico, è molto meglio che non in società dove questi valori sono vietati».

Siamo in guerra dunque?

«Per loro è una guerra di religione, per noi no e non lo deve diventare. Chi indossa una cintura di tritolo o impugna un machete e grida “Allah akbar” lo fa in nome della religione e vuole che sia così anche per noi. Ma noi non dobbiamo cadere in questo tranello. Noi dobbiamo sapere che certamente è in corso una guerra, da combattere però su un duplice fronte: da un lato quello dell’intelligence, dall’altro quello della cultura».

Crede che il Veneto abbia sviluppato degli anticorpi agli estremismi?

«Fra le lezioni in passato e le conferenze adesso, mi sento di casa in Veneto. Avendolo conosciuto, penso che il cattolicesimo veneto sia uno dei migliori che l’Italia possa mostrare, con l’impegno delle sue comunità, la Caritas, la propensione all’accoglienza. Tutto questo è un’ottima carta da giocare in questa partita».