Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù. È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva» (Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre (portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
Vito Mancuso, Repubblica 21 maggio 2016