Un ampio studio dell’Università di Chicago spiega che la fede in Occidente va lentamente ma progressivamente diminuendo; che interessa soprattutto gli anziani e ben poco i giovani; che avanza sempre più in chi crede la figura di un Dio personale e su misura; e infine che la presenza della fede non è comunque trascurabile perché rimane ancora largamente maggioritaria, visto che i credenti sono maggioranza in 22 paesi su 30, e in 7, tra cui gli Usa, sono al di sopra del 50 per cento. Sono dati che confermano tendenze note agli studiosi e che sarebbero diversi se la ricerca non avesse preso in esame solo una parte di mondo, in gran parte occidentale: la presenza del Sud america è ridotta al Cile, quella dell’Asia al Giappone e alle Filippine con la macroscopica assenza di Cina, India e di tutti i paesi delle aree buddista e islamica, mentre l’Africa non esiste nemmeno. Se lo studio avesse considerato l’andamento della fede su scala mondiale, le conclusioni sarebbero non dissimili da quelle di due giornalisti dell’Economist, Micklethwait e Wooldridge, uno cattolico e l’altro ateo, che nel 2009 pubblicarono a New York un volume la cui tesi è già nel titolo: God is Back, Dio è tornato. Non a caso le religioni costituiscono oggi nel mondo un fattore geopolitico di importanza imprescindibile per la lettura del presente, nel bene e purtroppo anche nel male, poiché è innegabile che dalle religioni derivano sia beni sia mali (e per questo spesso è così difficile ragionarne con pacatezza e senza passionalità).
Ma soprattutto è uno il dato che a mio avviso va sottolineato: cioè il fatto che in tutti i principali paesi europei se si sommano i cre- denti convinti agli atei altrettanto convinti non si raggiunge la metà della popolazione. È il caso di Germania (ovest), Austria, Olanda, Svizzera, Spagna, Russia, Italia, paesi in cui ci sono più credenti che atei; e di Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi dove la situazione è opposta. Il paese simbolo di questa tendenza a evitare gli estremi è il Giappone, dove solo il 4,3 crede fermamente in Dio ma solo l’8,7 è ateo. tutti gli altri vivono nell’incertezza di chi non sa, nel limbo di chi non prende posizione. Forse anche l’Euro- pa è destinata con il passare del tempo a diventare teologicamente “giapponese”? Di sicuro la mente occidentale, uscita da poco da quel secolo di ferro e di sangue che è stato il ‘900, è abitata da una forte perplessità e intravede motivi per continuare a credere in Dio e altri per non credervi più: il suo simbolo più adeguato è forse il labirinto, oppure una bilancia i cui piatti non sanno trovare il punto di equilibrio. Se la fede tradizionale a poco a poco viene meno, non per questo i più si rassegnano al materialismo e al nichilismo di chi ritiene che l’uomo sia solo “ciò che mangia”, con il risultato che la fede in una dimensione dell’essere chiamata “spirito” nonostante tutto persiste, anche se non si capisce bene che cosa si dice quando si pronuncia il termine “spirito” e quindi neppure quando si nomina “Dio”. Per questo non sorprende il dato a mio avviso più significativo offerto dallo studio americano, cioè che a fare le spese di questa crescente perplessità è soprattutto la fede cattolica nella sua configurazione dogmatica e teista. Infatti la perdita della fede in Dio durante il decennio 1998-2008 risulta più alta proprio nei paesi tradizionalmente cattolici, come Austria (-10,6), Portogallo (-9,4), Spagna (-7), Italia (-6,7), Francia (-5,8), persino Polonia (-5,5). Se poi si calcola quello che è successo dal 2008 a oggi nella Chiesa tra scandali legati alla pedofilia e restaurazione di messe in latino con connessa riabilitazione dei gruppi cattolici più reazionari e spesso antisemiti, possiamo essere sicuri che i dati nel frattempo non sono certo migliorati. Ormai è da tempo che a causa della scar- sità di vocazioni locali nei nostri paesi vi sono preti e suore ex- traeuropei in numero sempre crescente, ma se continua così anche le nostre antiche chiese saranno prive dei discendenti di coloro che le hanno costruite.
E il Vaticano cosa fa? Invece di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica del celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti, non ha saputo fare altro che istituire un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti. Io mi chiedo come si faccia a non voler considerare la drammaticità della situazione lasciando sistematicamente ignorati tutti i numerosi appelli alla riforma che regolarmente giungono a Roma da tutte le parti, me lo chiedo, ma non so rispondere. Se si avesse veramente a cuore la fede di quello che un tempo si chiamava “popolo” di Dio oggi destinato a diventare un circolo per pochi, non si dovrebbe agire in modo diverso?
La Repubblica 20 Aprile 2012