Dalla Bibbia a Nietzsche la vera felicità è nell’infanzia

Così dottrine spirituali diversissime tra loro concordano sulla necessità di diventare grandi restando bambini

bambini

Platone nel “Timeo” riferisce di un sacerdote egizio molto anziano che si rivolge a Solone dicendo: «Voi greci siete sempre fanciulli, un greco che sia vecchio non c’è!», intendendo sottolineare la gioventù spirituale di coloro che noi (ironia della sorte) chiamiamo “antichi greci”. Ma non c’è solo la possibilità di essere spiritualmente giovani, vi è anche quella, non meno coinvolgente, di essere spiritualmente bambini. All’infanzia spirituale è dedicato uno dei testi più belli della Bibbia ebraica, il salmo 131: «Signore, non si esalta il mio cuore / né i miei occhi guardano in alto; / non vado cercando cose grandi / né meraviglie più alte di me. / Io resto quieto e sereno: / come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, / come un bimbo svezzato è in me l’anima mia»…

Cosa diciamo di una persona che definisce se stessa quieta e serena e che si paragona a un bimbo in braccio alla madre? Diciamo che è felice e contenta, aggettivi che provengono ambedue dal latino. Il primo significato di felix è “fertile, fruttifero”, con riferimento a fetus e a fecundus, sicché l’aggettivo “felice” ha originariamente a che fare con la nascita e la fecondità: uno è felice quando è fertile ed è in grado di generare e di nutrire. Contentus invece è il participio passato di continere, “contenere, trattenere”, sicché contento è chi rimane entro certi limiti e non vuole di più: si contiene, è contenuto, e quindi è contento. Il bambino in braccio alla madre è felice perché ha a che fare con la fertilità della madre, ed è contento perché questo gli basta. Gli basta vivere, per vivere. Gli basta essere, per essere; non può desiderare altro, è contenuto, e questo lo rende contento.

Noi sappiamo che questa descrizione del bambino non è del tutto vera perché, come scrive il neuroscienziato Franco Fabbro, «nella specie umana il periodo di maggiore aggressività fisica corrisponde all’età di 2-4 anni sia nei bambini sia nelle bambine». Qui però a tema non è l’infanzia reale ma l’infanzia spirituale, quella condizione sognata e talora intravista che esprime una particolare caratteristica della felicità: la felicità come quiete e come pace, lo stato di chi è contento perché è contenuto e si accontenta, non va in cerca di cose superiori alle sue forze ma è soddisfatto di quello che ha e di quello che è.

Forse fu proprio pensando a queste cose che un giorno Gesù disse: «In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Luca 18,17). Ma in concreto cosa significa, che bisogna comportarsi e ragionare da bambini? San Paolo non la pensava così: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (1Corinzi 13,11). E ancora: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi…comportatevi da uomini maturi» (1Corinzi 14,20). La maturità e la ragione sono uno strumento prezioso che va salvaguardato contro ogni tendenza che favorisca l’immaturità e l’irrazionalità. Ma allora in cosa consiste propriamente l’infanzia spirituale? 

Rispetto alla traduzione cattolica ufficiale del salmo 131, la Bibbia ebraica presenta una versione diversa al cui centro si legge: «Ho considerato la mia persona e l’ho resa uguale a quella di un bambino appena divezzato da sua madre». Qui si parla di un’azione tutt’altro che infantile, si descrive la maturità di chi giunge a soppesare la propria persona e a scegliere in piena responsabilità quale sapore darle. Prescindendo dallo stabilire se sia più corretta la traduzione dei vescovi o quella dei rabbini, la questione esistenziale ritorna: che cosa significa decidere di essere spiritualmente un bambino? A mio avviso l’infanzia spirituale consiste in due atteggiamenti di fondo: meraviglia e fiducia. Meraviglia che la vita ci sia e che io la possa vivere, e fiducia in essa nonostante tutto. A questo riguardo penso che ognuno dovrebbe chiedersi se ha fiducia nella vita. La realtà che chiamiamo vita (intesa come natura più storia) possiamo paragonarla a una madre che ci nutre e che ci porta: ebbene, tu come ti trovi tra le sue braccia? Sei tranquillo e sereno, o all’opposto sei inquieto e stai male e vorresti essere da tutt’altra parte?

Naturalmente non siamo noi i primi a farci questa domanda, da sempre gli esseri umani se la sono posta e le loro risposte sono depositate in quell’insieme di saperi e di pratiche che con una parola sola chiamiamo “spiritualità” e che comprende arte, musica, letteratura, poesia, danza, religione, filosofia… Vi sono modi di sentire e di stare al mondo che si determinano nella direzione della scontentezza e della ribellione: sono le spiritualità all’insegna del no, nella convinzione che i conti non tornano e che quindi non è possibile essere contenti, anzi bisogna urlare, protestare, lottare. Vi sono altresì modi di sentire e di stare al mondo che esprimono tranquillità, gioia, serenità e chi vi aderisce è come se dicesse a se stesso che la vita è una madre di cui fidarsi ed essere contenti. Riporto al riguardo un brano di Pierre Teilhard de Chardin, gesuita francese, scienziato, teologo, cui la Chiesa dei suoi tempi tolse l’insegnamento e vietò ogni pubblicazione, in una lettera del 20 febbraio 1947: «Malgrado il caos apparente del mondo resto ottimista, perché, nel complesso, mi sembra che gli eventi vadano nella direzione che era legittimo aspettarsi: quella di un’unificazione planetaria dell’umanità, un processo estremamente pericoloso ma biologicamente inevitabile, a cui saremo (e già siamo) costretti a dedicare tutte le nostre migliori energie spirituali».

Nietzsche, a riprova di come questa disposizione non supponga la fede cristiana, presenta una visione analoga. All’inizio dello Zarathustra parla di «tre metamorfosi» al cui termine il leone deve diventare un fanciullo, e aggiunge: «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota rotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il gioco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì». Credo che Gesù intendesse rimandare a questa fiducia e meraviglia primordiali quando diceva che per entrare nel regno di Dio occorre diventare come i bambini.

Vito Mancuso, Repubblica 21 settembre 2017