Pensiero

L’armonia come intuizione filosofica

In generale il pensiero di Mancuso si può connotare come evoluzionismo teologico, o, dal punto di vista filosofico, come emergentismo. È un pensiero che si nutre della convinzione di una progressiva evoluzione dell’essere (come hanno visto Hegel, Bergson, Whitehead, Teilhard de Chardin), la quale però avviene mediante crisi, negazioni, contraddizioni, antinomie (come hanno visto Platone, Pascal, Kant, Simone Weil). È esattamente quanto scriveva il grande teologo russo Pavel Florenskij in una lettera del 7 dicembre 1935 al figlio Kirill (mentre si trovava prigioniero nel lager staliniano delle isole Solovki dove sarebbe stato ucciso due anni dopo): “Si tratta della visione della vita dell’antichità greca, di un ottimismo tragico. La vita non è affatto una festa e un divertimento continuo; nella vita ci sono molte cose mostruose, malvagie, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinnanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla” (da Non dimenticatemi, Mondadori 2000, p. 227). Mancuso ritiene che l’autentica dimensione religiosa consiste propriamente in questo tentativo di realizzare l’armonia di fronte alle brutture del mondo. Si tratterà di una realizzazione a volte serena, a volte tragica, ma in ogni caso la fede religiosa secondo Mancuso deve essere portatrice di una grande fiducia verso la vita, verso il suo valore, verso la sua sensatezza, verso la grandezza e la bellezza di essere uomo, in quanto libertà che sa scegliere il bene e la giustizia. La religione è un inno esistenziale al senso totale della vita.


Sul metodo

Per quanto concerne il metodo, più volte Mancuso si è dichiarato a favore del superamento del principio di autorità, che a suo avviso domina ancora oggi il cattolicesimo, e per l’instaurazione di ciò che egli definisce “teologia laica”, ovvero di un lavoro teologico per il quale l’istanza conclusiva non è l’autorità magisteriale della dottrina stabilita, ma la coerenza del pensiero rispetto all’esperienza concreta a livello oggettivo e l’onestà intellettuale a livello soggettivo.
Riportiamo a questo riguardo alcuni passaggi di un articolo apparso su “Repubblica” il 10 dicembre 2009:

«La teologia può tornare a far pensare gli uomini a Dio solo a due condizioni: radicale onestà intellettuale e primato della vita. Ha scritto Nietzsche: “Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza”. È vero. Se vuole tornare a essere significativa, la teologia deve configurarsi come radicale onestà intellettuale. Vi sono stati pensatori che nel ‘900 hanno scritto di Dio in questo modo: penso a Florenskij, Bonhoeffer, Weil, Teilhard de Chardin. Si tratta di continuare sulla loro strada. Oggi la coscienza europea non è più disposta a dare credito a una teologia che dia il sospetto anche del minimo mercanteggiare. In questa prospettiva la teologia deve intraprendere una lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, talora persino contro la Chiesa e la sua dottrina, senza timore di dare scandalo ai fedeli perché il vero scandalo è il tradimento della verità e l’ipocrisia. Ha scritto nel 1990 il card. Ratzinger: “Nell’alfabeto della fede al posto d’onore è l’affermazione: In principio era il Logos. La fede ci attesta che fondamento di tutte le cose è l’eterna Ragione”. Parole sublimi, ma ecco il punto: proprio dall’esercizio della ragione all’interno della fede sorgono acute difficoltà logiche su non pochi asserti dottrinali. Simone Weil rilevò il paradosso: “Nel cristianesimo, sin dall’inizio o quasi, c’è un disagio dell’intelligenza”. Tale malaise de l’intelligence è attestato anche dal fatto che i principali teologi cattolici del ‘900 hanno avuto seri problemi con il magistero, penso a Teilhard de Chardin, Congar, de Lubac, Chenu, Rahner, Häring, Schillebeeckx, Dupuis, Panikkar, Küng, Molari. E oggi le cose non sono migliorate, anzi. L’impostazione dominante rimane oggi la seguente: la teologia si esercita nella Chiesa e per la Chiesa e deve avere un esplicito controllo ecclesiale. Nel documento La vocazione ecclesiale del teologo, firmato dal cardinal Ratzinger nel 1990, il nesso chiesa-magistero-teologia è strettissimo. A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi la teologia deve sottoporre a critica. Perché il cristianesimo possa continuare a vivere in Europa, è necessario che la teologia liberi il pensiero di Dio dalla forma rigidamente ecclesiastica impostale lungo i secoli con la morsa degli anathema sit e faccia entrare l’aria pulita della libertà. Non sto auspicando la scomparsa del magistero, ma il superamento della convinzione che la verità della fede si misuri sulla conformità a esso. Ciò che auspico è l’introduzione di una concezione dinamico-evolutiva della verità (verità = bene) e non più statico-dottrinaria (verità = dottrina). Una teologia all’altezza dei tempi non può più configurarsi come obbedienza incondizionata al papa. L’obbedienza deve essere prestata solo alla verità, il che impone di affrontare anche le ombre e le contraddizioni della dottrina.
Ciò comporta il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità, ovvero il superamento dell’equazione “verità = dottrina” per porre invece “verità > dottrina”. È esattamente la prospettiva della Bibbia, per la quale la verità è qualcosa di vitale su cui appoggiarsi e camminare, pane da mangiare, acqua da bere. In questo orizzonte l’esperienza spirituale ha più valore della dottrina, il primato non è della dogmatica ma della spiritualità, e i veri maestri della fede non sono i custodi dell’ortodossia ma i mistici e i santi (alcuni dei quali formalmente eterodossi come Meister Eckhart e Antonio Rosmini). Ne viene che un’affermazione dottrinale non sarà vera perché corrisponde a qualche versetto biblico o a qualche dogma ecclesiastico, ma perché non contraddice la vita, la vita giusta e buona. Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che ragiona in base alla logica “ortodosso-eterodosso”, al sistema aperto e riferito alla vita che ragiona in base alla logica “vero-falso”, e ciò che determina la verità è la capacità di bene e di giustizia. Così la teologia diviene autentico pensiero del Dio vivo, qui e ora.»

La teologia laica con cui Vito Mancuso ama definire il senso di un lavoro fatto di lezioni universitarie e di articoli, di libri e di conferenze, rimanda a un discorso su Dio che sia tale da poter sussistere di fronte alla filosofia e alla scienza, le forme più accreditate del discorso veritativo nell’epoca moderna e contemporanea, ma che soprattutto sia tale da poter ancora oggi rappresentare per gli uomini della postmodernità un itinerarium mentis in Deum.


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