Destinazione Speranza

VITO MANCUSO – DESTINAZIONE SPERANZA 

in libreria per Garzanti editore il 15 ottobre 2024

Destinazione Speranza copia

In un presente dominato da terribili conflitti, disastri ambientali e inquietudini diffuse, guardare al futuro con ottimismo sembra un’impresa sempre più ardua: ripiegandosi su se stesso, l’uomo sta a poco a poco perdendo la speranza in un domani migliore. Viene dunque da chiedersi: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?». Cercando di rispondere a queste tre fondamentali domande, formulate per la prima volta dal filosofo Immanuel Kant, Vito Mancuso ci guida alla ricerca del significato più profondo e autentico della nostra vita. Togliendo alla ragione ogni pretesa di possedere un sapere su Dio e sull’avvenire, Destinazione Speranza rifonda il senso della nostra esistenza su un presupposto inedito e dirompente: la libertà di obbedire. Se saremo in grado di essere noi stessi in relazione con gli altri, di resistere all’egoismo favorendo la solidarietà, di ridare valore alla dimensione morale al fine di agire con responsabilità, allora non tutto sarà perduto: solo così, infatti, potremo definirci donne e uomini davvero liberi e guardare con speranza, ragionevole e fondata, al futuro che ci attende.

 ISBN: 8811010624 – Casa Editrice: Garzanti – Pagine: 288 – Data di uscita: 15-10-2024 – Edizione cartacea 18,00€

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IL METODO KANT 

Il libro del filosofo teologo dedicato alle domande di Kant sul significato profondo dell’esistenza umana. Solo la cultura ci aiuta ad arricchire la nostra interiorità.

 

Per ognuno di noi la vita ha una direzione orizzontale e una direzione verticale. La direzione orizzontale riguarda la natura e la storia dentro le quali ci ritroviamo inseriti e che ci trasportano in avanti come un interminabile tapis roulant. La direzione verticale riguarda noi stessi nella nostra singolarità, dal giorno in cui siamo nati fino al giorno in cui moriremo scomparendo dal tapis roulant della natura e della storia che in nostra assenza continuerà a scorrere imperterrito esattamente come aveva fatto prima del nostro arrivo. 

Le domande, a questo punto, sono due. La prima: che senso ha il continuo scorrere in avanti dell’interminabile tapis roulant della natura e della storia? C’è un fine che lo guida, uno scopo, una tensione verso una meta, o è solo un meccanismo insensato, un gioco beffardo con qualche risata e qualche guizzo di intelligenza, ma il cui unico vero risultato complessivo è solo un mare di lacrime e di sangue? …

La seconda: io, che vi sono comparso senza chiedere nulla, chi sono veramente? Da dove vengo, dove vado? Vengo dal nulla e ritorno nel nulla, oppure vengo dall’essere e ritorno all’essere? E in che modo vi ritorno, se vi ritorno? E nel frattempo, cosa ci faccio qui? Come mi devo comportare? Qual è la maniera migliore per raggiungere quella felicità che tutti inseguono e ben pochi raggiungono?

La prima domanda riguarda la natura e la storia, la seconda il senso e lo stile di una singola esistenza. Si tratta di domande a cui l’intelletto non può rispondere, vi può rispondere solo la ragione (secondo la decisiva distinzione kantiana tra intelletto e ragione su cui mi soffermerò più avanti). Il che significa che tali domande non possono essere oggetto della scienza, ma solo della filosofia. In questo libro vi risponderò attraverso il metodo Kant.

Tale metodo consiste nel primato della dimensione morale. Si tratta di un primato che non va inteso semplicemente nel senso ovvio secondo cui è giusto e doveroso fare il bene, ma che va inteso soprattutto come riguardante anche la dimensione teoretica dell’esistenza, perché alle questioni decisive presentate sopra sul senso dell’essere e sul nostro destino si può rispondere fondatamente solo dal punto di vista morale: saranno risposte teoretiche che scaturiranno dalla pratica morale. È questo il metodo Kant.

Verso la fine della Critica della ragion pura egli riassume così il senso del suo lavoro: «Nessuno potrà certamente menar vanto di sapere che esistono un Dio e una vita futura». Aveva distrutto la metafisica togliendo alla ragione ogni pretesa di possedere un sapere su Dio e sulla vita futura, demolendo così le risposte tradizionali alle due domande capitali sul senso dell’essere e sul nostro destino illustrate sopra (il che lo portò, come vedremo, ad avere qualche problema con il potere politico-ecclesiastico prussiano, nonché a essere oggetto ancora prima degli attacchi di un gesuita bavarese con un’opera in due volumi intitolata senza mezze misure Anti-Kant e a finire post mortem nell’Index librorum prohibitorum della Chiesa cattolica). 

Non si era trattato tuttavia per lui di una distruzione della speranza, ma di una sua rifondazione: ora le domande sulla direzione orizzontale e verticale della vita venivano a trovare una risposta non più a partire dalla necessità della natura o dall’autorità di un libro ritenuto sacro, ma a partire dalla libertà in quanto divenuta capace di agire solo in vista del bene. Quando infatti in questo mondo, dove tutto si muove secondo necessità e dove tutti agiscono secondo istinto o secondo calcolo, la natura umana (di cui Kant, come vedremo, mise in rilievo il male radicale), si mostra ciononostante capace del bene più puro, si ha, allora, un fenomeno inatteso, inconcepibile, eppure reale, che apre alla ragione l’unica via possibile per rispondere positivamente alle due domande decisive. Fu seguendo questa via che Kant trovò il fondamento per la rifondazione della speranza. Scrisse nella sua pagina più bella: «La legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile». 

Parlare di una vita che è indipendente dalla animalità e dal mondo sensibile significa parlare di un’altra vita, di una vita altra, del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo, la quale è vita animale e sensibile: significa cioè parlare della trascendenza, della realtà che è in gioco quando si nomina Dio e la vita futura. Ed è in questa prospettiva che Kant afferma di trovare risposta alle domande decisive, dichiarandosi moralmente certo dell’esistenza di Dio e della vita futura: «Io avrò fede nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei princìpi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi». Poco dopo: «La fede in un Dio e in un altro mondo è a tal punto intrecciata col mio sentimento morale, che non corro un pericolo maggiore di perdere quella di quanto non lo corra di perdere questo». Il che significa: o il fenomeno morale è falso, è cioè solo interesse mascherato, oppure, se è vero, apre un’altra via e, forse, un’altra vita. E che sia vero o falso, non dipende da altro che da te.

Alle domande decisive della tua esistenza non rispondono la conoscenza e la scienza che ne è il coronamento; risponde il pensiero che scaturisce dalla tua vita morale, ovvero dalla tua libertà che si compie come responsabilità. È il metodo Kant.

Alle due domande decisive la cultura oggi dominante risponde così: a) non esiste nessun senso ulteriore della natura e della storia, esse non sono finalizzate a null’altro se non a se stesse e quindi il loro senso è unicamente quello di alimentare il movimento del tapis roulant, tanto insensato quanto perennemente affamato di carburante organico; b) la singola vita umana non è altro che una minuscola manifestazione dell’insensata logica complessiva, di conseguenza per essa non esiste altro senso se non quello che le deriva dalla dissennata voracità dell’interminabile tapis roulant, cioè essere a sua volta dissennata e vorace. Per la cultura dominante infatti la vita di ognuno di noi ha una sola direzione: quella orizzontale. Inoltre, c) per la cultura dominante la morale è solo una convenzione per le masse finalizzata a non farsi troppo male a vicenda, ma non ha nulla a che fare con la logica della vita, la quale, esattamente al contrario, compie la sua vera natura nell’infrangerla.

Ora voi collegate: a) la filosofia della natura e della storia della prima risposta, b) la filosofia dell’esistenza della seconda, c) la riduzione della morale a pedante convenzione, e avrete la cultura dominante ai nostri giorni. Essa è l’espressione popolare, quindi necessariamente grossolana ma filologicamente fedele, della filosofia di Friedrich Nietzsche: materialismo + volontà di potenza. Tradotto in concreto: corpo + desiderio senza freni. La definizione che oltre un secolo fa egli diede del cristianesimo, cioè «platonismo per il popolo», vale oggi rispetto a lui per l’essenza della cultura dominante: «nietzschianismo (pronuncia: niccianismo) per il popolo».

Tale filosofia vincente ai nostri giorni emerge dal cinema, dall’arte, dalla musica, dalla letteratura, dalla moda, da tutto ciò che con una parola sola si chiama cultura perché coltiva l’interiorità umana (cultura, coltura, coltivazione hanno la medesima etimologia, la stessa anche per culto) e si riverbera sul modo di agire, di parlare, di vestire e in genere di disporre la mente. La disposizione della mente contemporanea è la volontà di potenza, ovvero l’assenza di ogni senso oggettivo di fronte a cui fermarsi, capire e obbedire. No, non esiste un senso oggettivo della natura, esiste solo il caso; non esiste un senso oggettivo della storia, esiste solo la forza; non esiste un canone etico, esistono solo convenienze e convenzioni; non esiste un canone estetico, esiste solo una sfilata di gusti e piaceri individuali. La distruzione di un senso oggettivo su cui normarsi e a cui obbedire è la condizione per l’esercizio della volontà di potenza, che, a livello di massa, si traduce in puro arbitrio, soggettivismo sfrenato, porci comodi. Il luogo in cui supremamente tutto questo trova la sua più plateale manifestazione è il corpo.

Qui non c’è più nessuna oggettività da riconoscere, c’è solo una situazione di partenza da interpretare come meglio aggrada e conviene a ciascuno a seconda delle stagioni e delle circostanze. In discussione ovviamente non c’è il fatto che uno nasca con un orientamento sessuale diverso da quello dei più e si dichiari tale e tale per- manga, felice, realizzato e rispettato per tutta la vita, com’è giusto in conformità a madre natura che così l’ha generato e come insegna l’etica del rispetto della dignità di ogni essere umano che tutti sono chiamati a onorare, a partire dal proprio linguaggio. In discussione c’è il fatto che si tende a che nessuno dichiari più nulla perché non c’è nulla da dichiarare se non la voglia e il capriccio del momento, i quali impongono se stessi trasformando la psiche e il corpo, e di conseguenza la personalità complessiva, in un desiderio ondivago e proteiforme senza nessuna stabile identità. Come denominare questa cultura trionfante?

La cultura è disposizione della mente: è il modo e la forma con cui la mente si dispone a guardare e a interpretare la vita, e poi a viverla di conseguenza. La cultura è lo schema mentale che una persona necessariamente applica ogni volta che guarda, conversa, giudica, agisce: tutto ciò che una persona pensa e fa, e anche ciò che non pensa e non fa, dipende dalla sua cultura in quanto coltivazione della sua interiorità. Da questa coltivazione interiore dipende la qualità del terreno e delle colture prodotte, esattamente in linea con il detto evangelico: «Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo». Tutto in ogni essere umano dipende dalla coltivazione interiore o cultura, la quale non è un lusso dei dotti ma una necessità di tutti. È un po’ come i muscoli: non puoi scegliere di usarli o no, se vivi li devi usare per forza, puoi solo scegliere di allenarli o trascurarli. Lo stesso per la cultura: non puoi scegliere di averla o no, perché in ogni tua azione essa entra in gioco e manifesta chi sei, puoi solo determinare il suo livello; e, di conseguenza, il tuo.


Recensione di Stefano Zani

Speranza, fede razionale, etica naturale [PDF]

Nel faticoso cammino alla ricerca di un “luogo aureo” prima delle controversie tra le tribù della terra un prezioso contributo è quello rappresentato dal lavoro di Vito Mancuso. Dopo aver elaborato e proposto, tra molti altri lavori, i concetti di divinità come creatio continua, di principio passione (cristo cosmico), di panenteismo e di Dio come artigiano buono e sofferente; dopo aver riproposto l’attualità di un’etica delle virtù, a partire da quelle laiche e cardinali, risalito le grandi tradizioni filosofiche e spirituali dell’umanità attraverso la lezione di Socrate, Confucio, Buddha e Gesù e scritto un’etica adeguata al nostro tempo, l’infaticabile Vito Mancuso, prolificissimo teologo laico e filosofo, prosegue con la sua ultima opera, Destinazione speranza. Il metodo Kant, nell’originale e coraggioso tentativo di rifondazione della fede  supportandola con una metafisica aggiornata, nel solco di  quanto ha già sostenuto Kant, in direzione di una fede razionale e di un’etica razionale laicamente fondate. Non più una metafisica dogmatica da cui segue un’etica dimostrativa su basi conoscitive, né un’etica derivante da una religione rivelata, bensì un’etica naturale che trova nella metafisica di Kant una fede razionale nella libertà e in tutto quello che di positivo può scaturire da essa: speranza orizzontale nei confronti dell’impegno al miglioramento del mondo grazie a consapevolezza e responsabilità, e speranza verticale in un superamento definitivo dello scarto tra reale e razionale che nella storia è comunque destinato a rimanere inevitabile …

Speranza

La speranza cui tale nuova metafisica dà luogo è quella in “una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile”(sono parole di Kant), ovvero in una dimensione superiore dell’essere che incide su quelle inferiori grazie alla libertà e all’amore; tutto ciò costituisce il cuore di questo libro di Vito Mancuso. L’opera costituisce ad avviso di chi scrive uno dei tentativi più riusciti di creazione di un consenso etico tra culture che va ben oltre gli steccati, penosi e spesso ipocriti, dei tentativi ecumenici nei rapporti tra religioni (perlopiù impegnate a pregare l’una contro l’altra) e di quelli di un dialogo tra credenti e non credenti, in direzione di un’etica laica che si rivolge a tutti gli esseri umani, tenendo conto anche degli apporti culturali appartenenti a diverse culture e civiltà. E lo fa stavolta ricorrendo a una profonda e raffinata ermeneutica di tutta l’opera di Kant, tanto che il sottotitolo (Il metodo Kant) fa di questo testo anche un imprescindibile e originale studio su Kant. 

Il bene praticato in prima persona, sperimentato da sempre presso tutte le società lungo il corso della storia, è la legge morale che irrompe in un mondo spesso immorale e lo cambia in meglio, venendo a costituire un fondamento della speranza che non è basato sulla risurrezione di Gesù, né su alcun’altra rivelazione biblica o evento sovrannaturale. La speranza in un compimento trascendente rispetto al mondo affonda le radici nell’esperienza della libertà, intesa come consapevolezza, creatività e responsabilità che sfuggono ai determinismi biologici.

Il legno storto

Ciò implica una visione dell’essere umano che sappia guardare in faccia tanto la propensione originaria al male, le cui radici rimangono per Kant misteriose, e che lo differenziano dall’idea della perfezione originaria da cui scaturisce il peccato originale nella Bibbia, quanto la propensione originaria al bene, come sostiene sempre Kant, di cui si citano accuratamente vari passi in proposito, tra cui il più celebre: ”Come si può sperare di ricavare da un legno così storto qualcosa di perfettamente diritto?”. A seconda del lavoro compiuto dagli uomini su se stessi attraverso l’educazione, potranno prevalere l’una o l’altra. Il vuoto originario che avvertiamo nella nostra esistenza costituisce la libertà come indeterminazione. Riprendendo il grande scrittore ucraino di lingua russa Vasilij Grossman, non credente in senso religioso, Mancuso sottolinea come la bontà illogica,  naturale  e fortuita dei singoli uomini sia eterna e costituisca una testimonianza del sacro senza rivelazioni sovrannaturali. Quando la libertà “si determina gratuitamente per il bene e la giustizia” si realizza l’umano nell’uomo.

Egolatria vs relazionalità

Secondo Mancuso l’assoluta egolatria imperante nel nostro tempo affonda le radici in una visione antropologica che sostiene l’egoismo strutturale dell’essere umano. Mentre San Paolo, Agostino, Lutero e Pascal, che condividono tale visione, la deplorano e invocano la grazia salvifica di Dio, Nietzsche, Stirner e Sade, seguiti nel nostro secolo da Marinetti e Mussolini, celebrano “il gioioso e sadico trionfo dell’egoismo assoluto”, ignorando il carattere costitutivamente relazionale degli esseri umani. Tale relazionalità degli esseri umani fa sì che “la maniera migliore di fare del bene a se stessi è fare del bene agli altri; e viceversa”, in una polarità tra io e altri che esiste, ma la cui legge costitutiva deriva dall’impegno per l’armonia relazionale. L’antico adagio Agere sequitur esse (l’agire segue l’essere) va perciò invertito “Esse sequitur agere”, nel senso che ognuno di noi è quello che è perché è stato agito, e sarà quello che sarà come risultato delle proprie azioni”. Il vuoto che ci rende indeterminati, anche tra il bene e il male, si riempie grazie al nostro impegno pratico di coltivazione della propria umanità e di contrasto agli elementi di debolezza, stupidità e cattiveria. Tale esperienza della propria e altrui umanità, pur non potendosi giustificare conoscitivamente, è esperienza della libertà all’interno della necessità che regge il mondo della natura e molto spesso anche quello storico.

Il bisogno di trascendenza

Mancuso condivide con Kant l’idea di una fondazione metafisica della libertà senza che la possiamo fondare conoscitivamente, e riprendendo concetti già abbozzati in precedenza, completa il ragionamento di Kant sostenendo che “ esistere significa essere il frutto dell’armonia relazionale la cui logica si può denominare mediante il concetto di bene”. Con il che si torna a quel tentativo di radicamento della spiritualità soggettiva in un sostrato metafisico già ampiamente argomentato in Il principio passione, ripreso nelle pagine finali del saggio sulla speranza che stiamo ripercorrendo, anche se stavolta ancorandola  e rendendola più convincente grazie all’impostazione data alla metafisica da Kant. Per quanto destinata a un brancolamento inconcludente dal punto di vista scientifico, la sete di senso alla ricerca del nostro compimento costituisce un bisogno insopprimibile, che poggia in ultima analisi su un centro interiore dotato di consapevolezza, creatività e responsabilità, ovvero di libertà, in grado di giustificare una fede razionale e una speranza fondata. 

Mancuso sottolinea le unilateralità tanto dei positivisti, che ignorano la frattura tra essere e dover essere rinunciando al potere unificante della ragione e relegando nel nonsenso la metafisica, quanto di Hegel che pretende di esprimere la coincidenza tra razionale e reale (“ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”), e mostra come Kant colga appieno e mantenga la frattura tra razionalità e realtà senza rinunciare a tentare di sanarla. Pur sapendo che “l’appagamento della ragione è sempre ulteriormente differito”, come sostiene nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant sospende il sapere per far posto alla fede “come fiducia in un compimento eccedente del reale” che non equivale alla fede come dottrina, ma alla speranza.

Razionalità e storia

Se per Hegel l’ultimo tribunale della razionalità è la storia, sottoposta alla legge del più forte, per Kant l’ultima istanza del pensiero è l’idea, intesa come facoltà unificante che aspira al significato al di là di tutti i condizionamenti e le limitazioni della realtà. La spiritualità che accetta il mistero e si forma, sia pur in modo problematico, un’idea di totalità delle esperienze del mondo esteriore ed interiore (comunemente chiamata Dio), di totalità degli avvenimenti del mondo esteriore (mondo necessitato e libertà) e di totalità delle esperienze del mondo interiore destinate a non perire con la nostra morte corporale (anima), ha al proprio centro quello che Kant chiama io invisibile, ovvero, secondo Mancuso, la coscienza morale.

Mancuso dimostra in modo assai convincente come “le tre domande sollevate nella Critica della Ragion pura [Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa è lecito sperare?] convergono tutte a formarne una quarta, la quale riguarda quello che ognuno di noi è in quanto essere umano”. Si tratta di una domanda di tipo antropologico, ovvero concernente “la questione umana, quella della nostra più vera identità. Compendiando alla fine dell’esistenza tutto il suo pensiero nella questione umana, Kant arriva a sostenere due cose: 1) che lo scopo complessivo della filosofia consiste nel giungere alla conoscenza e all’attivazione della vera natura dell’essere umano; 2) che la vera natura di un essere umano si attua quando si persegue la conoscenza, quando si pratica la giustizia e quando si coltiva la speranza”. E ancora con le parole di Kant precisa: “Lo scopo finale è null’altro che l’intera destinazione dell’uomo, e la filosofia che lo tratta si chiama morale”. “In questa prospettiva  – spiega Mancuso –  è importante comprendere che la morale non riguarda solo la seconda domanda kantiana, ma anche la prima e la terza […] La morale perciò riguarda tutte e tre le domande kantiane, non solo la seconda. Più in particolare, si può dire che già il termine critica contiene una dimensione etica in quanto suppone la presa di distanza dal proprio sapere per passarlo al vaglio e sondarne la fondatezza”.

Il metodo Kant

Per Mancuso “la libertà assume insomma un’importanza strategica fondamentale nella rifondazione della metafisica condotta da Kant”. Egli cita in proposito un passo decisivo di Kant dalla Prefazione alla Critica della ragion pratica: “Il concetto di libertà costituisce la chiave di volta di tutto l’edificio di un sistema della ragion pura, compresa la speculativa; e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell’immortalità), i quali, in quanto semplici idee, mancano di base nella ragione speculativa, si congiungono a quello di libertà e ricevono da esso e per esso consistenza e realtà oggettiva, sicché la possibilità di essi ha la sua prova nella realtà della libertà”. Quello che Mancuso denomina “il metodo Kant” di rifondazione della metafisica consiste proprio nel non sapere, ma nello sperare che quelle tre idee, di Dio, di libertà e di immortalità, siano in grado di dare un senso al nostro essere nel mondo e contribuire a modificarne le storture. Ancora con le parole di Kant: la libertà “prova la sua realtà oggettiva nella natura mediante il suo effetto possibile in essa”. Per Mancuso la risposta di Kant alla fede nell’esistenza di Dio e di una vita futura rappresenta una quinta via rispetto al materialismo ateo, all’agnosticismo scettico, all’idealismo assoluto e alla mistica speculativa e al farci guidare dalle sacre scritture. La certezza esistenziale della libertà è la ratio essendi  del primato della legge morale, che rivela “una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile” (sono parole di Kant); si tratta di una via laica alla rivelazione della trascendenza, che non può dimostrarsi per via conoscitiva, né per via dogmatica, insomma di una fede razionale che “rimane onestamente nel mezzo dell’ampio oceano” e si configura “solo come speranza”. 

Dopo aver citato una frase di Piero Martinetti, grande studioso di Kant, che recita “la ragione è la facoltà dell’assoluto, la facoltà religiosa per eccellenza”, Mancuso conclude: “La fede che nasce dalla filosofia kantiana è razionale non perché conforme a un astratto canone della ragione, ma perché figlia della ragione. La fede, in quanto fede, non sarà mai razionale, se per razionale si intende il significato del linguaggio comune, ovvero dimostrabile, logico, scientifico; no, la fede sarà sempre irrazionale, esattamente come tutte le convinzioni dell’essere umano che hanno un potere globalizzante in quanto toccano sia la mente sia il cuore e proprio per questo conferiscono passione vitale. Dobbiamo superare il mito della razionalità. La razionalità è uno statuto importante dell’esistenza umana, ma, se la si assolutizza, può trasformarsi in una specie di freno a mano della mente: tutte le cose più importanti della vita non sono razionali, il che vale non solo per la fede religiosa ma anche per la complessiva filosofia di vita, i gusti estetici, la passione politica, l’amore, per cui se si pretende che l’ultima parola sull’esistenza provenga dalla razionalità si viaggia sempre con il freno a mano tirato su”.

Rispetto all’appello a una rivoluzione palingenetica che porti il paradiso in terra di Marx, all’esaltazione della forza e della sopraffazione di Nietzsche, alla resa disperata all’assurdo dell’esistenzialismo ateo, e alla negazione del male e della frattura tra realtà e ragione di Spinoza e di Hegel, Kant opta per la via della resistenza al corso della storia lavorando nel mondo per ridurne le contraddizioni mediante una conversione dei cuori, ma nella consapevolezza che nessuna nuova struttura economica e politica saranno in grado di mettere fine alle contraddizioni del mondo. 

Fede cattolica?

Poi, con la chiarezza l’onestà e il coraggio intellettuale che caratterizza questo originale teologo del nostro tempo, Mancuso dichiara apertamente il suo credo: “Io da tempo ho una fede simile a quella di Kant. Anzi, se guardo indietro nella mia vita, penso di aver sempre creduto a quel modo. Non ho mai accettato tutti gli articoli che la Chiesa propone quali dogmi di fede, ad alcuni di essi non ho mai creduto, per esempio al peccato originale, alla dannazione eterna, alla risurrezione della carne, all’assunzione della Madonna in cielo in corpo e anima. E se è vero quanto dichiara san Tommaso d’Aquino, cioè che rifiutare anche uno solo degli articoli di fede proclamati come tali dalla Chiesa corrisponde a mettere in dubbio tutto l’insieme, forse non ho mai veramente aderito alla fede cattolica. Però ho sempre creduto in Dio: non ricordo neppure un attimo della mia esistenza in cui mi siano sorti dei dubbi sulla sua esistenza, come pure sulla sua essenza in quanto bene e in quanto amore”.

Laddove si ritenga che il mondo visibile e l’io visibile non costituiscano tutto ciò che è esperibile, si da’ trascendenza. Per Mancuso, a differenza di Kant, “il centro della fede razionale e quello della fede rivelata non coincidono. Mentre nella fede rivelata per compiere se stessi ci si affida ad altri, come il messia, il redentore e il profeta, nella fede razionale si supera ogni guida esteriore portando a compimento ciò che si ha dentro da sempre. Per quanto gli scienziati già ammettano una tensione tra cooperazione e conflitto inerenti alle pulsioni delle varie specie animali, negli esseri umani vi è insomma un prendersi cura degli altri in modo disinteressato e naturale che istituisce un mondo umano e una civiltà che sfugge alle necessità di carattere biologico. Pare che la celebre Margaret Mead abbia una volta risposto alla domanda circa quale fosse il primo indicatore della civiltà umana, dicendo che fu un femore rotto e poi guarito: ”[…] fu esattamente questa cura – conclude Mancuso –  a istituire il mondo umano come diverso da quello animale”.

Natura e morale 

Natura e morale si armonizzarono anche grazie alla metafisica elaborata dai grandi pensatori greci. Dopo la crisi di quella metafisica si è avuta un’inversione dei valori: comportarsi in modo disinteressato, gentile e onesto, rende popolare quella forma di “nietzschianismo per il popolo” costituito dalla “trinità avere, potere, piacere”. Occorre invece una rifondazione della metafisica che rovesci i termini con l’etica: prima un’etica definita “naturale superamento della natura” e poi una metafisica che la protegge dall’equivoco secondo il quale l’unica natura che abbiamo è quella di essere ferini. Vale la pena citare per esteso un lungo passo in proposito: “Oggi non è più così [cioè che l’etica sia considerata naturale] perché nelle nostre menti la logica predominante, dopo il crollo della metafisica, è tornata a essere solo quella della fisica cinicamente interpretata come lotta e selezione naturale, totale assenza di gratuità, volontà di potenza. L’etica, così, appare cosa d’altri tempi e del tutto innaturale, mentre, per essere attuali e naturali, bisogna essere cattivi e calcolatori, senza stare a perdere tempo con i femori rotti di chi non può pagare. Il che regolarmente avviene e la cattiveria calcolatrice spadroneggia dentro e fuori di noi. Il risultato è prevedibile: è il malessere crescente, dentro e fuori di noi […] Kant comprese che la metafisica, cioè la possibilità del pensiero di concepire dimensioni ontologiche al di là della concretezza materiale dell’essere (delle quali sono tre le idee per eccellenza: Dio, libertà, immortalità), andava completamente riformulata. Non difesa a spada tratta, né buttata nel bidone della spazzatura delle idee, ma riformulata su nuova base: non più sulla necessità, bensì sulla libertà; non più sul libro sacro, bensì sulla sacralità della lettura condotta con la propria testa. Egli comprese cioè che anche a questo riguardo era necessaria una rivoluzione copernicana: non più la metafisica padrona e l’etica esecutrice dei suoi decreti, bensì prima il sorgere gratuito dell’etica (il femore rotto e qualcuno che lo cura) e poi la metafisica quale custode di questo naturale superamento della natura che si chiama umanità (homo sum, humani nihil a me alienum puto”).

Una fede razionale

Il mondo non è né del tutto razionale né del tutto irrazionale. La ragione spera che lo diventi e genera la fede sia in un mondo più giusto e razionale in senso orizzontale, sia in un compimento trascendente, consapevole di un’aspirazione destinata a rimanere mai del tutto compiuta, in senso verticale; vale la pena anche qui citare un lungo passo: “E la ragione, desiderando avere l’ultima parola, non per volontà di potenza ma per amore della giustizia, genera, come se fosse una madre, la fede, detta razionale in quanto figlia della ragione (e non in quanto in se stessa razionale) […] Si tratta di una speranza trascendente che affida il compimento del mondo non al mondo stesso […] ma a un principio ontologico diverso dal mondo tradizionalmente detto Dio (anche se nessuno sa che cosa dice pronunciando quel nome). Ma appunto, qual è il fondamento di tale speranza? Come ho già detto, Kant non ritiene che la partecipazione all’immortalità e alla vita futura avvenga grazie a un evento straordinario compiuto da un altro i cui benefici ricadano gratuitamente su di noi; ritiene piuttosto che il fondamento della speranza consista nel bene praticato in prima persona in fedeltà alla legge morale, bene che verrà riconosciuto dalla struttura del mondo. E’ la legge morale che gli rivela ‘una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile’, non la risurrezione di Gesù, non la rivelazione biblica o qualunque altro evento sovrannaturale. Per lui la rivelazione di un’altra più vera dimensione dell’essere è il fatto che da un legno storto possa fuoriuscire qualcosa di perfettamente diritto: è la presenza della morale in questo mondo spesso così immorale. Fu su questa presenza, sperimentabile dagli esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che egli fondò la sua speranza e ancora oggi la consegna a ciascuno di noi”.

Leggendo queste pagine acutissime, profonde e ispirate, di Vito Mancuso, si respira aria nuova nella ricerca laica di una nuova spiritualità più aderente alla sensibilità odierna; la sua opera si inserisce tra i sempre più numerosi segni di un’elaborazione carsica in corso nelle più varie civiltà umane  da cui emerge con sempre più chiarezza un consenso etico tra culture diverse e una coscienza planetaria per gli esseri umani del nostro tempo. Ce n’è un gran bisogno. Si dirà che siamo oltre ogni ortodossia e oltre ogni accettabile eterodossia cristiana. In realtà, secondo Balducci la fede nello sviluppo delle possibilità inedite dell’uomo e come frutto della libertà è una virtù razionale e laica ed “insieme il modo storico di esercitare la fede teologale. E dunque virtù ecumenica, come nessun’altra, in quanto offre la possibilità di una comunione creaturale che metta in second’ordine tutte le appartenenze, anche quelle religiose. […] L’asse del rapporto con Dio non è più quello cosmologico e nemmeno quello storico, è quello etico […]”. Sempre per Balducci la differenza specifica della fede cristiana potrebbe conservarsi ormai soltanto nel sapersi liberare dalle mediazioni religiose. E il vero ecumenismo non riguarda la riconciliazione tra credenti e non credenti, bensì quella dell’uomo con l’uomo. Insomma, per dirla ancora una volta con le parole di Balducci, merito del ponderoso lavoro di Mancuso è quello di elaborare una nuova lingua ecumenica “capace di svincolare il messaggio di fede dal linguaggio particolare”.