Sulle dimissioni di mons. Mario Olivieri vescovo di Albenga e sulla situazione in generale dell’episcopato italiano

di Vittorio Coletti docente universitario ed editorialista di Repubblica 

Dopo una lunga e testarda resistenza si è arreso alle pressioni del Vaticano mons. Mario Olivieri, vescovo di Albenga, ed ha rassegnato le dimissioni da vescovo che gli sono state chieste da mesi, a causa della gestione troppo chiacchierata della sua diocesi. E’ un caso raro di vescovo di fatto deposto, perché inferiore persino ai modesti standard della Curia romana. Di mons. Olivieri ho già scritto ripetutamente e non starò a ripetere oggi che il suo limite maggiore non sta, a mio giudizio, nella sua spregiudicata accoglienza di preti chiacchierati e inaffidabili, ma nell’idea di chiesa e di religione che la sottende e vede in esse un mondo a parte di cui localmente il vescovo è principe e arbitro insindacabile. Se la Chiesa è un regno parallelo dentro la repubblica, il vescovo è, in una diocesi, il suo monarca, che stabilisce quello che è giusto e lecito e quello che non lo è. Ma il caso di mons. Olivieri non dovrebbe essere archiviato frettolosamente come la fine di un’anomalia dovuta al carattere cocciuto di un contadino di Campo Ligure che ha fatto inspiegabilmente carriera nell’istituzione…

Perché la sensazione è che di mons. Olivieri l’episcopato italiano sia ben fornito, visto che, sino a ieri, i criteri di selezione della classe dirigente cattolica non erano propriamente quelli della profondità intellettuale e della limpidità di fede: in Liguria, tanto per dire, abbiamo avuto, oltre a Oliveri, un vescovo collezionista di armi e un altro che si è fatto pagare il ricco appartamento in cui vive. Per capire meglio i guasti prodotti da criteri di valutazione del tutto avulsi dai meriti e dalle capacità, si deve pensare alle persone che, a loro volta, questi vescovi discutibili favoriscono o osteggiano nella vita interna delle loro diocesi. Si è parlato tanto dei preti col vizietto accolti da Olivieri. Ma sarebbe giusto dire anche dei preti santi e giusti che sono stati da lui accantonati, visibilmente trascurati, a volte dimenticati per anni in una piccola parrocchia, e solo perché nei modi (dall’abito civile al linguaggio) e nell’idea di chiesa (conciliare) non rispondevano al suo modello di sacerdote. A mons. Olivieri piacevano i pretini giovani inamidati che dicono messa in latino e fanno prediche innominabili, come quella di poche settimane fa al funerale a Imperia di un uomo di 50 anni, vissuti con dignità e coraggio tra le pene e la mortificazione di una spietata malattia; predica tutta basata sull’elogio della sofferenza, che sarebbe la via scelta da Gesù Cristo per salvare l’umanità, ascoltata con disagio dai numerosi presenti (il defunto era molto noto in città), sconcertati dalla mancanza di sensibilità del giovane sacerdote; e io aggiungo dalla sua ignoranza, visto che non sapeva che c’è una certa differenza tra una sofferenza “scelta” , come ha detto lui, e una subìta, inflitta per di più non dagli uomini (che potrebbero pentirsene) ma dalla natura che se ne frega. Ma se il modello di prete di mons. Olivieri è un sacerdote di questo genere è perché la cultura dell’episcopato italiano è ancora complessivamente molto arretrata e modesta. Lo si è visto anche nelle omelie dei due vescovi le cui diocesi sono state interessate dal recente terremoto. Se quello di Ascoli Piceno ha avuto l’umiltà e il coraggio teologico di chiedersi, davanti a un tale disastro, dov’è dio, il suo collega di Rieti si è affrettato a scagionare il Padreterno, attribuendo i morti del terremoto (6, 2 gradi di magnitudo!) solo all’uomo, magari al sindaco di turno, con un gesto di puro sciacallaggio politico purtroppo molto applaudito. Questo vescovo in cerca di facile consenso non si è mostrato molto più assennato del lontano cronista secentesco che, relazionando sul disastroso terremoto del 1639 nella stessa zona, addossava invece i morti tranquillamente a Dio, che, arrabbiato, li aveva puniti per i loro peccati: due letture incolte, superficiali, di gente intellettualmente grezza, superba, che non ha dubbi, ma solo certezze sbagliate e arroganti di fronte all’enormità del male. Mons. Olivieri non è una pecora nera, ma un vescovo molto rappresentativo del suo ambiente. Ha avuto la sfortuna di incappare in papa Francesco, che non sarà un genio della teologia ma è animato da tale lucida carità da saper comunque ben giudicare i suoi uomini. Ma sino a ieri Olivieri era molto gettonato per la cattedra di Genova, e anche oltre. La Chiesa farebbe bene a interrogarsi su come seleziona i suoi quadri. Forse il materiale umano è quello che è. Ma casi come quello di Olivieri denotano una preoccupante carenza di qualità umane essenziali. Qualche tempo fa un amico ebreo ha generosamente finanziato il restauro di una chiesa dell’entroterra dianese. Il parroco lo ha perciò invitato alla cerimonia di inaugurazione presieduta da mons. Olivieri. E io sono andato con lui. Ricordo ancora che mentre il simpatico prete presentava al vescovo il benefattore (un “fratello” ebreo, aveva detto), l’ineffabile Olivieri non gli diceva neppure grazie, ma si limitava a porgergli la mano perché la baciasse! La mancanza di tatto, di comune gentilezza in quel frangente si spiega con una percezione di sé e del ruolo che non ammette negli altri che la riverenza, l’ossequio. Di qui la passione di mons. Olivieri per i paramenti lussuosi e i gesti impostati. Quando lo vedevo passare dalla finestra di casa mia impettito e benedicente nella processione di s. Giovanni mi chiedevo come fosse possibile per lui non accorgersi che nessuno, tra le persone ai lati, riconosceva più un minimo di autorità e prestigio al suo sussiegoso procedere. Ed ero diviso tra pena e stizza. Può un uomo di settant’anni, con tale responsabilità pubblica, permettersi di non percepire la realtà intorno a lui e fare come se il mondo fosse ancora ai tempi dei principi vescovi, della chiesa temporale potente e sontuosa? Non dovrebbe potere. Ma mons. Olivieri lo ha fatto per anni senza batter ciglio e ha allevato nidiate di stolti pretini convinti di essere e avere un potere, entrati in seminario per difendersi dalle proprie debolezze invece che per testimoniare la propria fede, con un danno morale incalcolabile per loro e per i residui fedeli. Per questo, va salutato, questo vescovo, con umana commiserazione, ma senza alcun rimpianto. Lui non capirà mai i danni che ha fatto, ed è questo il suo alibi migliore: non ha mai capito niente del mondo e per anni gli è stato consentito di ritenersi superbamente di un altro e migliore. Ora che se ne sono accorti, i suoi superiori lo cacciano. Ma farebbero bene a chiedersi perché non lo hanno fatto prima. Forse perché di Olivieri in giro ce ne sono ancora tanti e, si dice, pronti a tornare appena passato papa Francesco.

Vittorio Coletti