Riflessioni teologiche sulla politica

Intervista a Vito Mancuso a cura di Gabriele Palasciano

Cortile dei gentili 22 dicembre 2014

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Professor Vito Mancuso, cos’è per lei la politica?

Definire oggi cos’è la politica non è semplice. La prima definizione che viene in mente è quella diAristotele che parlava della politica come “scienza architettonica del Sommo Bene”, intendendo per “Sommo Bene” il bene di tutti, ovvero il bene comune. Francamente devo dire che non riesco a trovare una definizione migliore di questa. Il politico dovrebbe essere un grande architetto che sa orchestrare gli interessi di ciascuno, i cosiddetti singoli beni particolari, orchestrandoli alla ricerca di un bene generale, di un bene di tutti. La politica è il sogno realizzato o realizzabile di una convivenza umana basata sulla giustizia, sull’armonia e sulla concordia. La politica è questa grande speranza nella capacità degli esseri umani di trovare, al di là dei propri particolari interessi, un sentiero per coordinare gli interessi di tutti e così costruire ciò che normalmente si definisce “bene comune”.

Vi è una convinzione ben radicata nella tradizione cristiana, a partire dal Nuovo Testamento, secondo la quale non può esistere una vera umanità senza un ordine politico. Come teologo cosa ne pensa? …

Penso che sia così. L’uomo porta inscritta dentro di sé la chiamata, la vocazione e la tensione alla relazione. Questo lo si vede già nel nostro organismo. Già a livello fisico, biologico, chimico noi siamo un intreccio di relazioni. Già la nostra singolarità costituisce, in realtà, una pluralità di elementi chimici, fisici e anche biologici. Basti considerare non solo le nostre cellule, ma anche il fatto che all’interno del nostro corpo noi ospitiamo un numero di microrganismi decisamente superiore a quello delle nostre cellule. Quindi, già noi come singoli individui siamo una polis, un’organizzazione plurale. Ed è evidente che se noi a livello singolo siamo questo, a livello plurale – dove il singolo si lega ad altri singoli formando un sistema – siamo chiamati a realizzare questa vocazione originaria alla relazione. Questo avviene normalmente nella famiglia, negli ambienti educativi (penso alla scuola in primo luogo), nel mondo del lavoro che è quasi sempre plurale. Ci sono anche coloro che lavorano sostanzialmente da soli, ma anche da questo punto di vista si lavora da soli in quanto si realizza una committenza e si fa un prodotto per qualcuno. Come nel mio caso, anche gli scrittori lavorano singolarmente ma sono, comunque, sempre chiamati a pensare agli altri nella purezza dello stile, nell’onestà dei pensieri. Ogni cosa che l’uomo realizza è di per sé politica. Dunque, è evidente che più questa vocazione alla relazione originaria viene sviluppata, più l’umanità si realizza. Questo è ciò che il Nuovo Testamento, come lei richiamava, ci insegna. Direi che tutte le visioni contemporanee – che leggono l’essere non più in maniera astratta bensì in maniera concreta, legata a ciò che le scienze insegnano dell’essere – ci ricordano che noi siamo inter essere, siamo relazionalità originaria, e la politica non è altro che il concerto delle singole individualità per trovare una relazione che sappia unire i singoli interessi. Dunque, l’umanità non si può compiere che in una direzionalità politica. Non è un caso che quando il Nuovo Testamento deve prefigurare l’escatologia realizzata parli di una polis, di una città. La città, la Gerusalemme celeste, è esattamente il compimento dell’umanità. Cioè l’umanità, così come il Nuovo Testamento la pensa nel suo compimento, non è monos ma è polis, ovvero non è una monade, non sono tante singolarità le une accanto alle altre, ma sono singolarità concertate, armonizzate, sono polis, e quindi la Gerusalemme celeste, la città, la politica.

Di fronte alle sfide che il mondo pone – si pensi al dominio dell’economia, alle diverse forme di schiavitù che assoggettano le donne e gli uomini del nostro tempo, al dilagare del fondamentalismo religioso, etc. – crede che il cristiano sia sufficientemente consapevole delle esigenze etiche e politiche che derivano dal Nuovo Testamento?

 Mi rendo conto, con la mia esperienza, che dire “cristiano” oggi è una cosa abbastanza complessa perché ci sono tanti cristiani, tanti modi di essere cristiani, tanti modi di essere cattolici. Quindi, analiticamente e con precisione posso rispondere che vi sono alcuni cristiani che effettivamente lo sono, che mostrano la chiara e decisa consapevolezza che la fede è anche politica, nel senso di assunzione della responsabilità del bene comune di tutti gli uomini, di tutte le forme viventi, dunque di tutto il pianeta. A mio avviso, oggi siamo chiamati a comprendere che la sacralità della vita è universale. Ogni vita è sacra, non solo le vite umane ma anche le vite animali, anche le vite vegetali. Credo che occorra riformulare l’etica e la spiritualità alla luce di questa consapevolezza di una sacralità diffusa in tutto ciò che vive. Questo perché noi esseri umani senza i vegetali e gli animali non potremmo vivere. La vita umana non è pensabile senza la vita vegetale ed animale, senza la vita delle stelle, senza l’interconnessione con il cosmo, senza quello che la teologia contemporanea – e non solo – chiama “creazione continua”. Se noi crediamo veramente alla “creazione continua”, vale a dire ad una mano divina che continuamente plasma il cosmo, immette informazione nell’energia e lega ogni essere vivente ad ogni altro essere vivente, allora noi dobbiamo sviluppare un’etica che sia realmente capace di interdipendenza e di attualità. Certamente ci sono dei cristiani che sono consapevoli di tutto questo, in particolare, in questo momento, il primo nome che viene in mente è quello di Leonardo Boff. Questo teologo, considerato come uno dei padri della teologia della liberazione, propone un’etica, politica ed ecologica al contempo, di una grande presa di responsabilità del pianeta in tutti i suoi aspetti. Però è anche vero che non sempre questa responsabilità globale si ritrova in tutti i cristiani. Infatti, ve ne sono alcuni per i quali il compito del Cristianesimo è quello di fare ciò che ha sempre fatto senza adeguate aperture, senza adeguati confronti, sostanzialmente conservando tutta una serie di tradizioni che sicuramente non vanno gettate via – ma che non devono essere temibili nella loro rigidità – ma che, al contrario, occorre far evolvere. Non sempre questa coscienza dell’evoluzione, del confronto con tutte le forme di vita oltre che con tutte le forme di spiritualità, e quindi questa presa di responsabilità globale della dimensione politica dell’etica e della spiritualità cristiana, è presente nel mondo cattolico. Del resto, è normale che sia così. Questo è un mondo complesso, e complesso è pure ogni fenomeno del mondo. Come in un esercito che avanza, sono presenti dei reparti chiamati ad esplorare e ad andare avanti, e ci sono dei reparti delle retrovie. Ebbene, anche nella Chiesa esistono dei reparti che vanno avanti ed altri indietro. Oggi, l’importante è che ci sia una comprensione tra le avanguardie e le retrovie.

Sembra che il legame tra il Vangelo e la politica non sia più al centro dell’attenzione, e questo si verifica sia nell’ambito della riflessione teologica sia in quello dello studio neotestamentario. Eppure, in un passato non molto lontano, diverse sono state le pubblicazioni di teologi, i dibattiti tra intellettuali credenti e non credenti su problematiche come le dittature, le ideologie della tirannia nazista o fascista, il marxismo, il comunismo, il fenomeno della povertà mondiale. Come interpreta questo affievolimento della riflessione?

È soprattutto in Europa che si ha questo affievolimento della dimensione politica nella teologia. Infatti, credo che nella riflessione teologica di altri continenti questa dimensione di attenzione all’aspetto politico sia ancora presente, e che costituisca una parte essenziale della produzione teologica. Per quanto attiene all’Europa, questo affievolimento si iscrive probabilmente in una più generale crisi dell’elaborazione politica che l’Occidente, in generale, sta vivendo. La teologia riflette questa crisi generale. Tra l’altro, la grande questione è di sapere cosa fare di fronte a questa crisi. Occorre sempre, quando si è di fronte ad una crisi, ritornare ai fondamenti e, per quanto possibile, si devono interrogare le fonti. Quindi, a mio avviso, è assolutamente essenziale, se si vuole ridare respiro all’elaborazione politica della teologia, interrogare i testi del Nuovo Testamento. Questo lo si deve fare comunque, a maggior ragione in un momento di crisi. Quello che emerge, nella mia lettura del Nuovo Testamento a livello politico, è una contraddizione originaria che lo stesso Nuovo Testamento contiene. Questo perché nel Nuovo Testamento prendono origine sia politiche che noi, con termini politologici potremmo definire “di destra” e conservatrici – che vedono il Cristianesimo essenzialmente in funzione o a servizio dello status quo – sia politiche “di sinistra”, che sono l’esatto contrario, dunque proposte progressiste e rivoluzionarie. Per essere concreto e per dare un fondamento alle mie affermazioni, cito due testi biblici neotestamentari. Da un lato, presento il testo della lettera ai Romani, al capitolo 13, dove Paolo di Tarso dice che non esiste un potere che non venga da Dio, ovvero che non sia voluto e mantenuto come tale da un potere più alto, quello divino. Naturalmente, questa prima prospettiva è molto gradita dai poteri costituiti perché, nella misura in cui questa teologia viene fatta propria, il potere si trova fondato a livello teologico e in possesso di un mandato divino. Non ci sono dubbi che il Cristianesimo, lungo la storia, abbia generato pensieri e prospettive molto supine alla situazione politica esistente, precisamente in questa funzione: se un uomo ha preso il potere è perché Dio glielo ha conferito, quindi il compito dei cristiani è quello di obbedire all’autorità costituita perché obbedendo si obbedisce a Dio stesso. Questa è una prospettiva che ha generato, all’interno dell’Occidente, quella visione che si può definire “di conservazione”. Cioè, cosa è chiamata a fare la teologia rispetto alla politica? È chiamata a proteggere, fondare, custodire il potere costituito perché viene da Dio. Dunque, si tratta di una teologia come instrumentum regni, strumento del potere, di una teologia come conservazione del potere. Da qui è scaturita quella linea che si traduce nelle politiche conservatrici, quella che è la “destra storica”. Da un altro lato, il Cristianesimo presenta una tendenza opposta a quella conservatrice. E qui apro una piccola parentesi di carattere metodologico. Per qualcuno, quando si trovano contraddizioni nei testi biblici tutto ciò è fonte di disagio. Per me è vero il contrario, è addirittura qualcosa che vado a ricercare perché credo nel potere fecondo della contraddizione, precisamente perché la contraddizione alimenta il movimento. Quando si vede un polo solo ci si ferma, ma se si passa al polo contrario si crea quella elettricità che fa sì che il sistema si muova. Questo avviene in natura e in cultura. Quando, al contrario, ciò non si verifica e tutto è conforme o equilibrato, allora il sistema è statico. Quindi, più si fanno emergere le tensioni – per esempio, a livello biblico, in uno stesso testo o tra diversi testi – più si vede come la Bibbia è capace di generare elettricità nella mente, di metterla in movimento, e come tale di essere feconda. Chiudo questa parentesi sottolineando che è molto importante far emergere le contraddizioni del testo biblico. Ebbene, il polo che si contrappone a quello che abbiamo analizzato, della conservazione, è quello progressista o della rivoluzione. Prima citavo il testo di Romani 13, mentre adesso cito il capitolo 18 del libro dell’Apocalisse. Mentre Paolo diceva ai romani che l’imperatore era stato istituito da Dio, l’autore dell’Apocalisse parla al contrario dell’autorità romana come di una grande bestia, la grande prostituta, dicendo che è l’avversario di Dio. Mentre Paolo di Tarso, sempre nel capitolo 13 della lettera ai Romani, diceva che i cristiani devono riverire l’autorità, l’autore dell’Apocalisse, sempre al capitolo 18, invita a ripagare il potere imperiale con la sua stessa moneta, ovvero incita alla ribellione, non alla violenza fine a se stessa ma quanto meno ad una dura opposizione che poteva sfociare in forme armate di ribellione. Infatti, il Cristianesimo ha generato anche questo. Se osserviamo bene ciò che si è prodotto nel corso della storia, troviamo che i cristiani sono stati, da un lato, l’espressione di un’ideologia di conservazione e, dall’altro lato, l’espressione di una forza di rivoluzione. Penso a diversi movimenti che hanno costituito anche un fermento di progresso, come i fraticelli di Francesco d’Assisi, i movimenti radicali come quello dei catari, oppure come quello dei contadini in Germania nel XVI secolo, o ancora come quello del socialismo cristiano. La modalità con cui la politica europea e mondiale oggi si determina è quella di avere una destra tesa sostanzialmente alla conservazione, e di avere anche una sinistra tesa al progresso e alla trasformazione. Tutto ciò lo si ritrova, sebbene in radice, nel Nuovo Testamento, ed anche la teologia politica deve rendersi conto che esistono momenti di resistenza e momenti di resa, per citare Dietrich Bonhoeffer. Ovvero, il cristiano è chiamato ad analizzare volta per volta la concreta situazione e capire cosa occorre fare. Credo che sia immaturo, unilaterale, legarsi ad un’opzione politica prestabilita e pensare che l’azione politica debba essere sempre e necessariamente quella della conservazione, oppure quella della trasformazione e del progresso. Invece, credo che occorra a volte conservare ed opporsi al cambiamento, mentre altre volte promuovere il cambiamento abbattendo lo status quo, introducendo qualcosa di nuovo. Il cristiano è chiamato volta per volta, nel presente, a discernere quali soluzioni politiche adottare tra le due, entrambe legittime all’interno del Nuovo Testamento.

Il recupero di una sana teologia politica otterrebbe dei risultati positivi?

Il recupero di una dimensione politica nella riflessione teologica porterebbe certamente dei frutti essenziali. Se non esiste la consapevolezza che la fede è al servizio del mondo, allora c’è da chiedersi a cosa serva la fede. Essere a servizio del mondo significa sviluppare una teologia politica. Però politica non nel senso di “partitica”, legata ad un partito – dato che è evidente che questo non è il compito della teologia, né tantomeno della Chiesa – ma nel senso di una riflessione che, a partire dai fondamenti del Vangelo, si faccia carico delle questioni sociali, delle questioni ecologiche, in generale delle questioni legate alla polis, cioè interessata alle questioni dello stare insieme e della convivenza degli uomini tra loro. Un pensiero di questo tipo è necessario affinché il Vangelo possa essere effettivamente quello che pretende di essere, ovvero la “luce del mondo” ed il “sale della terra” (cf. Mt 5,13-16). Come si può essere “luce del mondo” senza l’elaborazione di tracce e di sentieri politici? Cosa vuol dire oggi evangelizzare, se non tentare di offrire nuovi modelli di economia, nuovi modelli di socialità, nuovi modelli di finanza, nuovi modelli dello stare insieme? È assolutamente decisivo tutto ciò e non è un’opzione, un Cristianesimo che non faccia da subito emergere la sua carica innovativa ed incisiva sulla dimensione politica, per citare il Vangelo, è il sale che “ha perso il suo sapore”.

Concretamente, come pensa si dovrebbe inserire questo elemento nell’iter formativo dei teologi cristiani? E come nel dibattito intellettuale contemporaneo?

Certamente, è raro trovare nel piano di studi di un teologo un corso dedicato alla teologia politica oppure alla filosofia politica. Sono d’accordo che è una grave carenza. Si fa qualcosa a livello di etica sociale, ma è indubbio che queste tematiche riguardanti la riflessione teologica sulla politica vadano approfondite. Personalmente, darei un corso di teologia politica ai miei studenti, mi sembrerebbe una cosa importante ma non solo di teologia politica secondo la tradizione cristiana. Sarebbe interessante analizzare anche come le diverse religioni del pianeta elaborano o si confrontano con i modelli politici. Qui sarebbe molto interessante capire perché la democrazia è nata in Occidente e non altrove; capire l’Islam in ordine alla questione politica e democratica, e se tutto questo sia più o meno coerente con il Corano e cosa significa; oppure capire l’Induismo e la politica attuale in India. Ritengo che la democrazia, almeno in ambito moderno – comunque riconoscendo ovviamente la sua nascita nell’antica Grecia –, non sia nata per caso nell’Occidente cristiano. Questo perché il Cristianesimo è plurale già nel suo stesso statuto, dato che la pluralità è contenuta nell’insieme dei settantatre libri che compongono il canone della Bibbia, e dato anche che sia la destra che la sinistra sono già contenuti nella Rivelazione cristiana. Il fatto che la Rivelazione cristiana contenga tanto la possibilità della destra che quella della sinistra, ha necessariamente imposto alla mente cristiana una forma di mediazione tra queste due diverse visioni del mondo – e quindi un metodo capace di mediare anche gli antagonismi – e dunque la democrazia. Mentre nel mondo in cui esistono quelle visioni politiche che non conoscono la pluralità – penso soprattutto all’Islam o ad altre religioni che non la riconoscono come la riconosce il Cristianesimo – non è un caso che la democrazia è ben lontana dal potersi realizzare e che i regimi politici che vanno per la maggiore sono “assolutisti”. Naturalmente, questo non significa ritenersi superiori agli altri bensì fare un’analisi obiettiva delle cose e proporsi come “sale del mondo” a tutti i livelli. Questo per quanto attiene alla formazione. Per quanto attiene invece ai teologi, questi dovrebbero chiedersi sempre – ed io per primo –, qual è la risultanza pratica e politica delle loro prospettive. Cioè, una determinata teologia della Chiesa, una determinata antropologia teologica, una determinata maniera di celebrare, una determinata modalità di pensare l’etica e anche la cristologia o la Trinità, ebbene tutto questo non può non avere una risultanza politica. Quindi, il principio “responsabilità” – come direbbe Jonas, riprendo il titolo del suo celebre libro – dovrebbe portare ogni teologo a chiedersi quale visione concreta del mondo fanno scaturire le sue prospettive antropologiche, cristologiche e pneumatologiche. Se tutti i teologi facessero questo, la dimensione della sensibilità politica sarebbe destinata a dare maggiori frutti.

Semplificando per ovvie ragioni di limiti di spazio e di tempo, nella storia della teologia cristiana due sono state le posizioni estreme assunte nei confronti della politica. Da un lato quella di credere che la politica instaurerà il Regno di Dio sul pianeta. Dall’altro lato, quella di disinteressarsi completamente della politica opponendola al messaggio cristiano. Questa dicotomia “manichea” esercita ancora oggi – anche se inconsciamente – una certa influenza?

Questa visione, che lei giustamente sottolinea, è radicata a sua volta nel Nuovo Testamento per il duplice concetto di “mondo”. Questo termine è molto ambiguo negli scritti neotestamentari perché, da un lato, sottolinea e rimanda al potere che si contrappone a Dio. Basti pensare al “Principe di questo mondo” o alla scena delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dall’altro lato, il termine mondo è ciò che contrassegna la cura paterna e amorevole di Dio che manda il figlio Gesù per salvare il mondo, che si prende cura del mondo in ogni sua manifestazione, compresi il numero dei capelli dell’uomo o i passeri del cielo che non muoiono senza il suo volere, o la pioggia che cade sui buoni e sui cattivi (cf. Mt 10,26-33; Mt 5,45). Da questo scaturisce la duplice tradizione a cui lei faceva riferimento. Da una parte, quella di chi ritiene che il mondo possa coincidere con il Regno di Dio e, dall’altra parte, quella di chi pensa che il Regno di Dio debba sempre e comunque coincidere con la scomparsa di questo mondo, e che a questo mondo si disinteressa completamente. È evidente che questa duplice tensione è ancora presente, e che sarà presente sempre fino a quando ci sarà un solo cristiano sulla terra. Ciò per il semplice motivo che il mondo è ambiguo. Il mondo, da una parte, è ciò che va rifiutato nella sua mondanità per la logica del potere, della ricchezza, della forza, ovvero per quella logica che si vede accendendo una televisione, leggendo un giornale, camminando per le vie del centro per i negozi di moda – una logica che ha ben poco a che fare con le beatitudini, con la mitezza evangelica, con la sobrietà ma che, comunque, è proprio la logica dei figli di questo mondo. Di fronte a tutto questo, il cristiano è chiamato all’opposizione, al distacco, a volte anche al disprezzo – il famoso contemptus mundi della tradizione medievale, sul quale scrisse un libro addirittura papa Innocenzo III –, quindi il mondo come “mondano”. Dall’altra parte, proprio giocando in italiano sul duplice significato del termine, il mondo è anche “mondo”, cioè pulito, mondato, il mondo è l’oggetto ultimo della cura del cristiano, dato che il Cristianesimo è “sale della terra” e che quello che conta è la terra, mentre il sale è in funzione della terra. Il Cristianesimo è la “luce del mondo” e la luce non ha utilità se non risplende sul mondo ed illumina le tenebre. Questa è una duplicità strutturale. Si è ancora dinanzi ad una contraddizione feconda. Ci sono ancora oggi e ci saranno sempre queste due diverse tendenze e, ancora una volta, si è rinviati al libro Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer. Cos’è chiamato a fare il cristiano? A volte, è chiamato a resistere al mondo perché è il male, il dominio del Principe di questo mondo. Altre volte, egli è chiamato ad ospitare il mondo dentro di sé, perché il mondo è qualcosa di pulito, come ne parlava il gesuita Pierre Teilhard de Chardin quando diceva che per lui sarebbe stato paradossalmente possibile perdere la fede in Dio, nella Chiesa, ma mai nel mondo, questo fenomeno naturale che siamo chiamati ad amare in tutti i suoi aspetti. Questa è la politica nel senso evangelico, la più pura e la più bella possibile, e che va certamente tenuta assieme a quell’altra forma di politica di opposizione rispetto a questo mondo e alle sue istituzioni. In questa dialettica di resistenza e di resa si gioca il cammino dei cristiani in questo mondo.

Qual è la responsabilità politica del cristiano? Può indicarne una priorità?

Io credo che la responsabilità politica del cristiano sia quella di sapere che la sua fede, la sua spiritualità, il suo cuore è “per la vita del mondo”. Questa è una delle espressioni che amo di più del Vangelo, ed è tratta dal capitolo 6 del Vangelo secondo Giovanni. Siamo tutti chiamati, come cristiani, ad essere in funzione della vita del mondo. La Chiesa realizza sé stessa quanto più si spende non per il proprio bene particolare ma per il bene comune, a volte anche essendo capace di rinunciare ai propri interessi. La maniera migliore di evangelizzare, oggi non è quella di esprimere parole, formule, ma è quella di mettere in campo un’azione coerente, etica ed esemplare dal punto di vista personale, che mi sembra essere l’azione di papa Francesco. L’urgenza è quella di interpretare qualunque momento in dedizione. In Occidente questo significa prestare molta attenzione alla dimensione della speranza, nutrire le anime che sono rinsecchite per la disperazione. Altrove occorrerà fare altri tipi di azione.